Nuovo, drammatico, capitolo del caso Cucchi: lo scorso 4 ottobre, i periti hanno dichiarato che la morte di Stefano potrebbe essere stata “improvvisa e per epilessia”, nonostante il volto tumefatto e le lesioni alla colonna vertebrale sembrano avvalorare una tesi diversa e agghiacciante. Eppure, in Italia il reato di tortura da 28 anni è ancora senza una legge, risultando di fatto impunito. Giulio Casilli, laureando in giurisprudenza all’Università Statale di Milano, ha fatto per Vox un punto della situazione: tra un disegno di legge bloccato in Parlamento e punti discutibili, ecco la situazione nel nostro Paese. Dove il senso morale dovrebbe obbligare la politica a colmare questo vuoto normativo.
di Giulio Casilli
Stefano Cucchi pesava 37 chili, aveva il bacino rotto e numerose ecchimosi quando sua madre ha stentato a riconoscerlo nella camera mortuaria dell’Ospedale Sandro Pertini di Roma. La morte del giovane ragioniere romano attende ancora di conoscere verità e giustizia. Dopo un primo processo, conclusosi con l’assoluzione di tutti gli imputati, un nuovo processo sembra essere alle porte.
Nell’ultima e controversa perizia medico-legale pubblicata lo scorso 4 ottobre, i periti incaricati dalla giudice Tamburrelli (nell’ambito della nuova inchiesta che vede indagati cinque carabinieri, tre per lesioni personali aggravate e abuso d’autorità, e due per falsa testimonianza) hanno affermato, con qualche contraddizione, che quella di Stefano Cucchi potrebbe essere stata una “morte improvvisa e inaspettata per epilessia in un uomo con patologia epilettica di durata pluriennale, in trattamento con farmaci anti-epilettici”. Sono state altresì accertate le lesioni alla colonna vertebrale, le quali contribuiscono ad avvalorare la tesi secondo cui Cucchi sarebbe stato vittima di violenza durante i sei giorni di custodia cautelare.
Al di là ed a prescindere dall’accertamento della verità giudiziaria – che ci si augura possa vedere presto luce nelle aule di tribunale, prescrizione permettendo – la tormentata vicenda di Stefano Cucchi ci ricorda come nel nostro Paese manchi ancora e purtroppo una legge sul reato di tortura.
La Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura
Il 10 dicembre 1984, a New York, veniva stipulata la Convenzione ONU contro la tortura, la quale prevede che ogni Stato parte della Convenzione – inclusa l’Italia – si adoperi per perseguire penalmente gli atti di tortura delineati all’art. 1 della Convenzione stessa, ossia:
“qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito”.
Dalla ratifica ad oggi cosa è successo?
L’Italia ha ratificato la Convenzione con legge 489 del 1988. Alla legge di ratifica, nei ventotto anni successivi, non ha fatto seguito l’introduzione nel codice penale italiano di alcuna fattispecie di reato per le condotte del tipo descritto nella Convenzione.
Attualmente vi è però un disegno di legge al vaglio del Parlamento italiano. Disegno di legge che ha subito una pesante battuta d’arresto con la sospensione decisa dal Senato della Repubblica lo scorso Luglio, sebbene – dopo un primo passaggio in Senato – il testo fosse stato già approvato dalla Camera dei Deputati nell’aprile del 2015. Approvazione della Camera che arrivò all’indomani della sentenza della Corte di Strasburgo in cui venivano classificate come “tortura” le condotte tenute dalle forze dell’ordine a seguito dell’irruzione nella scuola Diaz di Genova, durante il G8 del 2001. Nel dispositivo della sentenza, la Corte aveva invitato l’Italia a “dotarsi di strumenti giuridici in grado di punire adeguatamente i responsabili di atti di tortura o altri maltrattamenti impedendo loro di beneficiare di misure in contraddizione con la giurisprudenza della Corte”.
Cosa prevede il disegno di legge?
Il disegno di legge introduce il reato di tortura nel codice penale italiano, modulando le pene in base all’autore del reato:
– il fatto, da chiunque commesso, è punito con la reclusione da 4 a 10 anni;
-il fatto, se commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio, può portare alla reclusione da 5 a 12 anni.
Le pene sono aumentate se dal fatto deriva una lesione personale. Se dal fatto deriva la morte «quale conseguenza non voluta», la pena è la reclusione a trent’anni. È previsto invece l’ergastolo se la morte è causata da un atto volontario.
Si prevede altresì l’introduzione del reato di istigazione a commettere tortura: un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio che istiga un collega, indipendentemente dal fatto se il reato di tortura sia poi commesso, rischia da sei mesi a tre anni.
Le dichiarazioni ottenute mediante il delitto di tortura non possono essere utilizzate in sede processuale, salvo che contro le persone accusate di tale delitto.
Una minor tutela per le forze dell’ordine?
Al fine di agevolare un corretto dibattito sul tema, appare necessario provare a fare chiarezza su un aspetto spesso invocato dai detrattori di questo tipo di intervento legislativo: non viene messa in discussione in alcun modo la tutela dell’azione delle forze dell’ordine. Si garantisce uno strumento efficace contro gli abusi che, da chiunque commessi, meritano di essere classificati come reato. Si tratta di una norma di civiltà, presente in numerosi ordinamenti moderni: Francia, Regno Unito, Spagna e Germania – giusto per citarne alcuni – prevedono il reato di tortura o altre norme assimilabili alla fattispecie, con pene talvolta superiori (e non di poco) a quelle contenute nel disegno di legge italiano, eppure non risulta che le forze dell’ordine di questi Paesi versino nell’impossibilità di svolgere correttamente il loro importante lavoro.
Conclusione
Quando l’Italia si impegnava per la prima volta ad introdurre il reato di tortura nel nostro ordinamento, Stefano Cucchi aveva soltanto sei anni. Ne aveva dieci quando la Convenzione è stata ratificata. Oggi ne avrebbe trentotto. Nulla è cambiato mentre era in vita, né dopo.
Appare sempre più forte ed evidente, pensando ai tanti casi di cronaca come quello di Cucchi, quel vincolo morale e non soltanto giuridico che dovrebbe imporre al nostro Paese di approvare al più presto una legge che, nel rispetto degli standard internazionali, preveda e punisca la tortura e i maltrattamenti.