Chi decide della vita in uno stato democratico? Come affrontare questo complesso argomento nel pieno riconoscimento della libertà personale? A partire dai casi Welby e Englaro, VOX ne parla con Patrizia Borsellino, professore ordinario di Filosofia del diritto nell’Università degli Studi di Milano-Bicocca.
Si è trattato di decisioni, improntate al riconoscimento della libertà personale come valore da tutelare sino alla fine della vita, nelle quali ha trovato corretta applicazione il modello di un diritto che, già al più alto livello normativo, quello delle norme costituzionali, garantisce gli individui dall’espropriazione delle decisioni che più direttamente li riguardano (quali sono le decisioni relative agli interventi sul corpo), e dal mantenimento e/o dall’introduzione di situazioni di ingiustificata disuguaglianza giuridica, attribuendo loro diritti fondamentali, che le sentenze sui casi Welby e Englaro hanno finalmente “preso sul serio”, superando le remore e le oscillazioni di una giurisprudenza, che non si era rapidamente liberata di pericolose confusioni concettuali, come quella tra sospensione di un trattamento e eutanasia, e che aveva esitato nel rileggere alla luce dei principi costituzionali disposizioni del codice penale (dall’art. 54. Stato di necessità, all’art. 328. Rifiuto di atti d’ufficio, all’art. 593. Omissione di soccorso, all’art. 579. Omicidio del consenziente, all’art. 580. Istigazione a aiuto al suicidio), sovente individuate da una dottrina, dimentica di quei principi, come fondamento dell’obbligo del medico di impedire sempre e comunque la morte (Borsellino 2004).
Ma quelle decisioni non sono state affatto oggetto di un’unanime valutazione positiva. Al contrario, v’è stato chi ne ha denunciato il carattere ideologico, scorgendovi pericolose manifestazioni di una giustizia asservita alla cultura della svalutazione della vita vissuta in condizione di fragilità, oltre che irrispettosa della divisione dei poteri.
La critica è venuta dal partito dei vitalisti irriducibili che, con l’intento di “porre rimedio” agli importanti risultati conseguiti nella direzione del riconoscimento della libertà individuale, all’indomani della pronuncia della Corte d’appello sul caso Englaro, hanno scatenato un’offensiva senza esclusione di colpi, ben presto passata dal piano mediatico al piano istituzionale.
Nel settembre del 2008, la Camera dei deputati e il Senato della Repubblica hanno, infatti, congiuntamente, promosso un giudizio presso la Corte costituzionale per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, adducendo che la Corte di cassazione e la Corte d’appello di Milano avrebbero, con le loro decisioni, «esercitato attribuzioni proprie del potere legislativo», al quale soltanto compete dettare le regole destinare a disciplinare, in via generale, i corretti modi del decidere alla fine della vita.
Quelle reclamate erano decisioni sullo specifico caso sottoposto al loro giudizio, che i giudici, pur in assenza di una specifica disciplina di carattere legislativo, avevano assunto, nella cornice del quadro normativo disponibile, per non denegare giustizia. Sollevando il conflitto d’attribuzione, che la Corte costituzionale ha rapidamente risolto l’8 ottobre 2008, dichiarando il ricorso inammissibile, la maggioranza parlamentare ha compiuto il maldestro tentativo di “censurare” nel merito le decisioni delle Corti, arrogandosi l’ultima parola, in assenza di altri mezzi di impugnazione.
E’ stato, a ben guardare, un tentativo di riaffermazione della forza della politica contro il diritto, travestito, però, da rivendicazione della legittimazione esclusiva del Parlamento, in quanto organo democraticamente eletto, a dettare le norme e ad assumere le decisioni che maggiormente incidono sulla vita (e sulla morte) di tutti i cittadini.
Ma è giustificato prospettare, in relazione alle questioni di fine vita e, più in generale, in relazione alle questioni di rilevanza bioetica, la rigida contrapposizione tra diritto legislativo e diritto giurisprudenziale, accreditando l’idea che ci si debba preoccupare soprattutto delle fonti o, se si preferisce, dei poteri da cui provengono le regole che disciplinano “il chi e il come” delle scelte sulle cure alla fine della vita, piuttosto che dei contenuti delle regole stesse?
La risposta a tale domanda non può essere altro che negativa per chiunque, nel valutare le modalità appropriate di intervento del diritto in materia bioetica, non perda di vista le caratteristiche e i vincoli che la produzione del diritto incontra nella democrazia costituzionale. In una forma di organizzazione politica che supera l’antico contrasto tra “governo degli uomini” e “governo delle leggi” (Ferrajoli 2011, p. 14), grazie all’introduzione di una Costituzione rigida, nella quale sono contenute non solo le regole procedurali, ma anche i principi e i valori entro la cui cornice devono essere esercitati tutti i poteri ed essere prodotte tutte le norme, vi sono i presupposti per considerare il diritto come un prodotto alla cui formazione concorrono, nel rispetto delle loro competenze, diversi organi investiti di potere, vale a dire, sia il Parlamento investito della funzione legislativa, sia la magistratura, le cui norme individuali e concrete (cioè le sentenze) costituiscono pezzi insostituibili del mosaico normativo nella delicata materia delle questioni bioeticamente rilevanti.
Diritto, quindi, né più del solo legislatore, né più dei soli giudici, bensì, per un verso, opera di un legislatore che, nel fare le leggi, deve rispettare i limiti non solo formali, ma anche sostanziali che la Costituzione gli impone proprio sancendo inviolabili diritti; e, per altro verso, opera di giudici tenuti sì, a loro volta, ad assumere le loro decisioni, e a produrre le sentenze, nel rispetto delle leggi, a condizione, però, che si tratti di leggi costituzionalmente valide, con l’importante implicazione che «l’interpretazione e l’applicazione della legge sono anche, sempre, un giudizio sulla legge medesima, che il giudice ha il dovere, ove non sia possibile interpretarla in senso costituzionale, di censurare come invalida tramite la sua denuncia di incostituzionalità» (Ferraioli 2002, p. 355).
L’attenzione va allora, ancora una volta, rivolta ai diritti, a quelle prerogative – espressione di esigenze storicamente maturate e di valori ampiamente condivisi – riconosciute a tutti gli individui dalle norme del diritto positivo collocate al più alto livello dell’ordinamento. Riguardo alle decisioni di fine vita, i diritti in questione sono quelli di libertà e di uguaglianza, che garantiscono tutti gli individui, in qualsiasi condizione clinica, dal rischio di decisioni prese da altri, in contrasto con le loro convinzioni e i loro valori. Si tratta di diritti che nessuna legge votata dal Parlamento a maggioranza può ridimensionare o annullare, senza esporsi alla censura di incostituzionalità.
Una censura alla quale si esporrebbe un provvedimento legislativo che, nella linea del Disegno di legge “Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, consenso informato e dichiarazioni anticipate di trattamento” (già approvato dal Senato il 26 marzo 2009 e, a due anni di distanza, in versione parzialmente emendata, dalla Camera nel luglio del 2011), per un verso, annullasse il diritto di ogni individuo a ricevere, sino alla fine della vita, cure conformi alla propria volontà, riservando al medico tutte le decisioni, ma, per altro verso, nell’investire il medico del ruolo di custode ad oltranza della vita, quand’anche ridotta a pura sopravvivenza biologica, ne umiliasse l’autonomia professionale, espropriandolo della valutazione di appropriatezza dei trattamenti salvavita e, in particolare, dell’idratazione e della nutrizione artificiali.
In altre parole, la legge che il Parlamento è legittimato a dettare in materia di spettanza delle decisioni sulle cure alla fine della vita non può avere qualunque contenuto, né può, contrariamente a quanto hanno ripetutamente affermato i sostenitori del sopra menzionato Disegno di legge, essere improntata all’orientamento valoriale di coloro che la votano. Deve, al contrario, in conformità con i valori di libertà, di uguaglianza e di laicità incorporati nella Costituzione, restare immune dalla sopraffazione di una sola morale sostanziale, di cui istanze religiose o civili rivendichino e pretendano l’accoglimento e l’attuazione, così da garantire la ricchezza e la varietà delle scelte morali individuali, consentendone la convivenza in uno stesso contesto sociale.
Patrizia Borsellino