La Corte Suprema degli Stati Uniti ha stabilito che i matrimoni gay contratti negli stati americani in cui sono permessi, per il governo federale hanno valore in tutti gli stati americani, anche in quelli in cui non sono previsti dalle leggi. Un provvedimento storico che apre le strade all’uguaglianza e che soprattutto rivela molte vicinanze tra la situazione americana e quella italiana. Non tutte positive. Per VOX lo approfondisce professor Matteo Winkler.
Il 26 giugno 2013 la Corte Suprema degli Stati Uniti ha dichiarato incostituzionale la Section 3 del Defense of Marriage Act (DOMA) del 1996, una norma che stabiliva che nel diritto federale la parola «matrimonio» potesse essere interpretata solo come l’unione tra uomo e donna. La pronuncia affronta il DOMA principalmente sotto l’aspetto dell’equilibrio tra potere federale e competenze dei singoli Stati, non senza affermare la piena dignità e uguaglianza delle coppie dello stesso sesso.
Prima di esaminare sinteticamente la sentenza (per un’esposizione articolata si consenta di rinviare al mio commento su Articolo29.it), va precisato che, al contrario di quanto si possa pensare, essa non introduce il matrimonio same-sex negli Stati Uniti, né obbliga i singoli sister states a riconoscere il matrimonio celebrato negli altri. La pronuncia, piuttosto, si afferma rispettosa della sovranità dei singoli Stati in materia di diritto di famiglia, secondo la migliore tradizione federale degli Stati Uniti, e considera il matrimonio tra persone dello stesso sesso come la realizzazione delle promesse di dignità e uguaglianza a livello statale.
Più precisamente, il caso trae origine dal ricorso promosso da Edith S. Windsor, anziana donna di New York che alla morte della moglie Thea C. Spyer, con cui aveva una relazione da oltre 40 anni e che aveva sposato in Canada, si era vista addebitare quasi 400.000 dollari di tasse di successione proprio per effetto del DOMA. Quest’ultimo infatti finisce per privare le coppie dello stesso sesso, che pure sono riconosciute in 11 dei 50 Stati che formano la federazione, dei benefici previsti da oltre 1.000 leggi e disposizioni di vario tipo. Si creano così due differenti regimi, all’interno dello stesso contesto normativo dato dagli ordinamenti dei singoli sister states, uno ossequioso della dignità e dell’uguaglianza delle coppie gay e lesbiche (statale), e l’altro discriminatorio (federale).
Secondo la Corte, insomma, se uno Stato ritiene di dover assicurare la dignità e l’uguaglianza di tutti i cittadini a prescindere dal loro orientamento sessuale, il potere federale non può avere nulla da obiettare. Inoltre, la storia che precede il DOMA e il DOMA stesso dimostrano che «l’interferenza con l’uguale dignità dei matrimoni tra persone dello stesso sesso […] rappresenta non una conseguenza incidentale della legge federale, ma la sua sostanza». Il fine ultimo del DOMA è proprio interferire con gli ordinamenti degli Stati, dettando loro entro quali canoni legiferare, e dissuadere le coppie dello stesso sesso dal contrarre matrimonio. Scopo della norma è quindi «imporre la disuguaglianza».
Vi sono molte similitudini tra la situazione italiana e quella americana federale. Entrambi i legislatori – il Congresso come pure il Parlamento italiano – hanno dimostrato in più occasioni di non volersi occupare della tutela di gay e lesbiche se non in negativo, forse in virtù di non proprio chiare convinzioni morali o di influenze esterne. Inoltre, nella sentenza n. 138/2010, la Corte Costituzionale italiana, al pari della Corte Suprema seppure con toni e intensità diversi, ha espressamente riconosciuto la dignità costituzionale delle coppie dello stesso sesso. Infine, la nostra Corte di Cassazione si è recentemente mossa nel senso di assicurare a gay e lesbiche la tutela che il Parlamento, negli ultimi anni, ha negligentemente trascurato di offrire.
Vi è però una sensibile differenza. Mentre un organo notoriamente conservatore come la Corte Suprema degli Stati Uniti ha saputo trovare le parole giuste al momento giusto, da noi all’accresciuta sensibilità della società italiana non sembra corrispondere l’opportuna dose di coraggio da parte vuoi della classe giudiziaria, vuoi della classe politica. E questo è un peccato, soprattutto alla luce del fatto che l’Italia è rimasta l’unico Stato membro originario dell’Unione europea a non aver legiferato sul tema. Certamente, l’esempio americano illustra come la parità dei diritti e la dignità e l’uguaglianza delle persone non rappresentano questioni squisitamente morali o meramente politiche, ma vere e proprie emergenze costituzionali alle quali occorrerà prima o poi porre rimedio.
Matteo Winkler