Sono ipocondriaca, lo ammetto. Per i medici, sono una iattura. Perchè da loro non accetto mezzi termini: ho bisogno di conforto, di rassicurazione, ma non faccio sconti, non mi prendano per il naso, io sono informata!
Quando mi siedo davanti alla scrivania di un medico, sudo freddo. Attendo, con ansia paziente, il verdetto. La mia condanna a morte: sarò malata? Ormai li riconosco. Nello sguardo, nella gestualità, nel modo di sporgersi verso la scrivania o, al contrario, di schermarsi e di schernirsi: so se questo medico sarà in grado di prendersi cura di me o solo dei miei malandati organi.
Perché questo è il punto: oltre le mie patologiche ansie, il medico nella nostra cultura, resta il vaticinante guru cui deleghiamo la responsabilità della nostra salute. Un corto circuito emotivo e culturale, che affonda le radici in una cultura della dipendenza e del servaggio, ben lontana dallo spirito di libera cittadinanza che implica l’assunzione diretta delle proprie responsabilità e il divieto di alienazione dei propri diritti a qualsivoglia pubblico o privato ufficiale. Un dato antico, purtroppo, proprio del nostro giovane Paese. Giovane, in termini di storia e di acquisizione dei fondamentali della democrazia, intendo.
La scienza poi, lo sappiamo, gode dello status di enclave protetta dall’aura della propria inarrivabilità: una sorta di circolo iniziatico per chi detiene le fonti della conoscenza.
E allora, eccolo il corto circuito; noi pazienti, nei confronti del medico, navighiamo allegramente tra atteggiamenti opposti: la delega assoluta della nostra salute (“L’ha detto il medico!”) e la furia incontrollata quando e se le cose vanno male (vedi l’aumento esponenziale delle denunce verso i medici).
E invece io credo che abbia ragione il dottor Cerati. Abbiamo bisogno di una svolta. Abbiamo bisogno di acquisire coscienza vera e piena dei nostri diritti di malati e pazienti, al di là del semplice tutoring che associazioni e istituti possono fare al posto nostro. Nell’era della salute 2.0 è un nostro dovere, prima che un diritto, essere informati e farci carico della nostra salute. Insieme al medico, che per primo deve e può cambiare il proprio atteggiamento verso il paziente. Comunicare in modo diretto, esaustivo, spiegare, raccontare, accompagnare. Sono semplici verbi, ma parlano di un percorso virtuoso e accuditivo.
Ogni malattia, prima che un sintomo, è una narrazione: racchiude la storia della persona che ci si trova di fronte. Come ogni narrazione, merita rispetto e attenzione: non freddezza e lontananza. L’empatia cura. Lo sta dicendo anche papa Francesco. VOX ha deciso di puntare i riflettori sui medici che in questa direzione stanno lavorando: non un modo per distribuire inutili medagliette, ma un’iniziativa concreta per testimoniare di un modo nuovo di approcciare il paziente e la cura.
Per questo chiediamo a tutti voi di segnalarci il medico, la struttura, l’operatore che vi ha dato quel minuto di ascolto in più, che vi ha regalato quel sorriso o quell’abbraccio virtuale ma caldissimo, che vi ha raccontato con parole semplici e chiare, senza allarmarvi inutilmente, la vostra malattia. Ne faremo una sorta di “anagrafe” del buon medico e lo metteremo a disposizione di tutti noi. Grazie.
Silvia Brena