Che cosa scatta nella testa di un uomo che colpisce la donna che ha amato e che pensa ancora di amare, quando la pesta fino a farla morire? Che cosa lo porta a voler uccidere colei con la quale ha condiviso la gioia e la possibilità di creare magari altre vite? Sul moltiplicarsi dei casi di femminicidio e di intolleranza contro le donne si è detto e si è scritto molto. Si è detto e scritto che le vittime, accanto alle donne, sono proprio loro, i carnefici, in un’edizione riveduta e corretta della nota sindrome di Stoccolma. Si è detto e ripetuto che gli uomini che si affacciano sull’abisso della loro inadeguatezza di fronte alle loro compagne, non più relegate ai ruoli subordinati di “custodi” della casa, a volte non riescono a trattenere la rabbia, che è sempre espressione di debolezza e che rimarca la loro inadeguatezza umana e vitale. E si è detto e scritto molto sul fatto che è proprio agli uomini, e alle loro madri, che bisogna parlare. A quegli uomini che non riescono ad accettare di avere accanto una compagna e non un’ancella. E che portano sulle spalle il peso per loro inaudito di un cambio di immagine e di paradigma: quello che ha trasformato le donne della generazione delle baby boomers, per la prima volta nella storia, in portatrici di reddito spesso superiore a quello dei loro compagni, sottraendo quindi agli stessi la primazia nel gioco complesso delle relazioni e delle gerarchie famigliari.
Ma tutto questo non basta.
Molti, tra gli studiosi della comunicazione e i sociologi e i filosofi, hanno spiegato e ripetuto che nell’era fluida della comunicazione digitale, la nostra identità si forma e si definisce a partire dalle immagini che noi diamo di noi stessi. Lo hanno fatto tutte le civiltà, del resto. Dagli albori della storia. Pensiamo alla Bibbia, e alle grandi narrazioni con le quali l’umanità si è descritta. E adesso chiudiamo gli occhi e poi riapriamoli all’improvviso. E proviamo a guardare, senza giudicare, come fanno gli zen, le immagini e le icone che quotidianamente ci propongono la nostra narrazione. E guardiamo le lolite che si atteggiano nella pubblicità e nei servizi di moda, le virago sexy travestite da manager che occhieggiano, le bambine che passeggiano su passerelle di presunti concorsi di bellezza. E adesso concediamoci il “rinfresco” del ragionamento, se non del giudizio. Perché quando il corpo viene oggettivato, privato della sostanza dei suoi sogni, come diceva il grande Shakespeare, e della fragranza della sua anima, poi si finisce per pensarlo come un mero strumento di conquista e seduzione. E allora, quando il gioco si fa pesante, il corpo diventa la prima cosa/ il primo oggetto da distruggere. Così la violenza si scatena. E il corpo delle donne viene sfregiato. Lo è sempre stato, direte voi. Vero. Altre culture, che ammettono violenze fisiche e psicologiche sulle donne per noi occidentali impensabili (come la lapidazione) hanno sempre considerato il corpo delle donne impuro. Noi però lo abbiamo trasformato in una “merce” ambigua: perché mentre strizza l’occhio a un uomo in piena perdita di autostima, concedendogli l’illusione di poter tornare a governare la situazione, dall’altra lo domina, sottraendogli il piacere e umiliandolo in un gioco che non lo vedrà mai protagonista.
Dunque. Dunque, c’è un paradigma culturale da rifondare. Passa attraverso l’immagine che noi donne abbiamo e diamo di noi stesse. Al mondo, ai nostri compagni, ai nostri figli. Si nutre della possibilità di scrivere altre narrazioni, lontane dall’aspirazione delle neo madri a vedere le proprie figlie sfilare imbellettate, bambole tristi deprivate della loro infanzia. E delle adolescenti di usare il proprio corpo a scapito della propria anima. Sì, lo sappiamo. Vent’anni di veline e di bunga bunga ci hanno fatto a pezzi. Ma la colpa non è solo di Berlusconi e del berlusconismo (anche se la responsabilità è altissima). C’entrano la moda, la cosmesi, i media tutti.
Per cominciare, basterebbe che le donne con leggerezza e allegria iniziassero a emulare quel gran genio di Bartleby lo Scrivano, immortale protagonista di Melville, che a una società a cui si sentiva estraneo, iniziò a rispondere “preferirei di no”.
Preferirei di no. Prestare mia figlia a una sfilata. Accettare di passeggiare in mezzo a lolite occhieggianti. Foraggiare tv show con donne seminude e sculettanti.
Preferirei di no.