Gli ultimi dati Istat fotografano in modo impietoso, con la crudezza dei dati, il fenomeno: oltre il 70% del lavoro familiare è a carico della donna; solo il 50% delle donne ha un’occupazione a tempo pieno; la retribuzione del lavoro femminile nel nostro Paese è tra le più basse d’Europa. Un dato, che si aggiunge a quelli drammatici sull’occupazione femminile: l’occupazione femminile in Italia è tra le più basse dell’Europa (46% vs una media europea del 60%) e l’Italia è al 71° posto nel Global Gender Gap Index del World Economic Forum. Insomma, le donne in Italia non lavorano, quando lavorano sono discriminate e in ogni caso il lavoro di cura (dei propri famigliari e della rete parentale allargata) grava ancora oggi sulle spalle delle donne. Una situazione che le costringe a un percorso “multitasking” che incide a fondo sul benessere e sull’armonia di vita. Ne riflette per Vox Isabella Menichini, Direttore centrale Servizi alla persone e alla famiglia del Comune di Parma.
Sono ancora tanti i temi e i problemi, troppo spesso ignorati, che riguardano l’universo delle donne. Uno di questi riguarda la conciliazione dei tempi di cura e di lavoro, in inglese re-conciling work and family life o più semplicemente work and life balance. Riguarda, cioè, quell’insieme di norme, strumenti, atti a consentire ad una persona di poter armoniosamente vivere le sue responsabilità professionali e quelle famigliari. Il tema quindi non dovrebbe essere di stretta pertinenza femminile, ma purtroppo quando si parla di conciliazione dei tempi di vita e di cura si fa sostanzialmente riferimento agli equilibrismi che una donna è costretta a compiere per incastrare nella sua vita quotidiana il lavoro fuori casa, quindi il suo impegno professionale, con tutti gli impegni e le responsabilità legate alla cura domestica, alla cura dei figli e dei suoi famigliari. Questo perché, ancora oggi nel nostro Paese, in maniera molto estesa, si ritiene che il lavoro di cura sia di “competenza” pressoché esclusiva del mondo femminile.
L’ISTAT, grazie soprattutto all’impegno del suo Direttore Centrale Linda Laura Sabbadini, da anni riserva a queste tematiche una grande attenzione, raccogliendo ed analizzando dati che purtroppo confermano la percezione che quasi tutte le donne italiane hanno: il 76,2% del lavoro familiare delle coppie è ancora a carico loro, (valore di poco più basso di quello registrato nel 2002-2003, 77,6%), anche nel caso si considerino le famiglie a doppio reddito, con più alta scolarità e residenti nel centro nord.
Oltre ad un’innegabile arretratezza culturale che ancora caratterizza il nostro Paese e che risulta evidente nel persistere di tanti stereotipi e luoghi comuni sulla divisione dei ruoli e sulla gestione dei carichi famigliari, una delle cause principali di questa situazione è l’impianto “fortemente familistico del sistema di welfare italiano”, che tuttora delega alle famiglie la responsabilità di cura sia degli adulti in condizione di dipendenza, sia dei bambini. Ma in Italia quando si scrive “famiglia” si deve leggere “donne”: è a loro, infatti, che viene delegato tutto il carico del lavoro di cura dei nostri famigliari. Nell’arco di una giornata questo vuol dire che le donne passano il 19,4% del proprio tempo svolgendo l’insieme di attività domestiche e di cura nei confronti dei componenti della famiglia, contro il 7,9% del tempo che gli uomini dedicano a questi impegni. Ma leggendo questi dati non si può non evidenziare che ancora oggi le stesse donne con fatica si sottraggono a alle responsabilità di cura: dalle indagini svolte emerge che ancora oggi una percentuale molto elevata tra loro considera gli impegni verso la casa e la famiglia una “competenza femminile”.
La scelta di un figlio ad esempio produce conseguenze che ricadono sostanzialmente sulla madre. Così guardando ai dati, l’ISTAT ci ricorda che “In Italia la condizione di madre si associa a una minore presenza femminile sul mercato del lavoro: tra le 25-54enni madri di bambini/ragazzi coabitanti con meno di 15 anni, le donne attive nel mercato del lavoro sono il 60,6% e quelle occupate il 55,5%, valori significativamente inferiori a quelli delle altre donne di questa stessa fascia di età. Diversamente accade per gli uomini che in presenza di un figlio manifestano, al contrario, un maggior coinvolgimento nel mercato del lavoro (il 90,6% dei padri è occupato, contro il 79,8% degli altri), a conferma del tradizionale ruolo maschile di fornitore del reddito principale della famiglia. Frequentemente il percorso di stabilizzazione dell’attività lavorativa avviene proprio in quegli anni in cui alle donne è richiesto il maggiore impegno famigliare; forse non a caso, l’Italia ha il più basso tasso di fertilità in tutta Europa.
Si tratta come evidente di un circolo vizioso dal quale è difficile uscire nel nostro Paese. E ciò nonostante il grande investimento culturale, normativo ed anche finanziario che è stato promosso rispetto a queste tematiche a livello europeo ed internazionale. L’unione Europea in particolare ha svolto un ruolo di grande stimolo per accelerare il percorso di emancipazione delle donne dai vincoli del lavoro di cura, da un lato sostenendo lo sviluppo, a livello nazionale, di politiche e strumenti nazionali a sostegno della conciliazione e che hanno portato ad esempio il nostro Parlamento ad approvare la legge 53 del 2000 (successivamente raccolta nel testo Unico sulla Paternità e Paternità – decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 ripetutamente aggiornato ed integrato), dall’altro indirizzando in maniera sempre più convinta queste tematiche verso un’idea di maggiore equilibrio/condivisione nella gestione delle responsabilità famigliari tra i due sessi, più che di conciliazione dei tempi unicamente all’interno della sfera femminile. Da qui sono scaturite ad esempio quelle misure approvate in diversi Paesi quali il congedo obbligatorio dei padri (in Italia in verità si tratta di un solo giorno obbligatorio e due facoltativi a fronte di periodi più lunghi approvati in altri Paesi).
Oltre al cambiamento culturale, alla presenza di normative in materia di congedi, ad un’adeguata copertura finanziaria dei periodi di congedo parentale (che in Italia è pari al 30% della retribuzione a fronte di Paesi europei che arrivano a coprirla per intero), l’altro grande pilastro che favorisce la conciliazione e quindi l’occupazione femminile è rappresentato dai servizi di welfare. La carenza di servizi di cura nel nostro Paese rappresenta un ostacolo per il lavoro a tempo pieno di 204 mila donne occupate part time (il 14,3%) e per l’ingresso nel mercato del lavoro di 489 mila donne non occupate (l’11,6%).
Lo sviluppo della rete dei servizi nel nostro Paese è affidato all’impegno degli enti locali, quasi esclusivamente ai Comuni. Nonostante la nostra Costituzione abbia previsto all’articolo 117 la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di diritti sociali, nei fatti il livello centrale non ha investito nello sviluppo dei servizi per la prima infanzia e per l’assistenza e la protezione delle persone con disabilità e non autosufficienti. Cosicché non è stato definito un sistema di diritti sociali e non è stato previsto un finanziamento stabile per la loro implementazione. La conseguenza è che non vi è stato un impegno dal Centro, attraverso ad esempio l’adozione di Piani nazionali, finalizzati al sostegno agli enti locali nell’area dei servizi alla persona e alla famiglia con il risultato che nel nostro paese la spesa dei Comuni per le funzioni sociali rappresenta appena lo 0,46 per cento del PIL.
La Spesa pubblica per servizi destinati ad anziani e a persone con disabilitò fa registrare un – 40% rispetto alla media UE (Eurostat): il Fondo nazionale per le non autosufficienze istituito nel 2007 con valenza triennale e destinato alle regioni e da queste agli Enti locali per lo sviluppo a livello territoriale di servizi appropriati per la non autosufficienza non è divenuto uno strumento ordinario di politica: cosi ogni anno non è dato sapere se verrà rifinanziato ed il suo ammontare non è fisso. SI è passati dai 400milioni del 2009 all’azzeramento nel 2012 e poi ad un rifinanziamento parziale negli anni successivi, con una riduzione degli stanziamenti di circa il 60% rispetto al 2008. Nel 2012 gli ultra64enni in Italia erano più di 12 milioni pari al 21% della popolazione e le previsioni Istat stimano che nel 2020 supereranno i 14 milioni (22,5% della popolazione) e la dotazione di posti letto per abitante è pari al 2,5%. I Comuni sono sempre più in difficoltà: aumentano ovunque le liste di attesa per il ricovero in strutture residenziali, ma anche per l’assistenza domiciliare.
Uno sguardo ai servizi per la prima infanzia mostra di nuovo un’Italia a macchia di leopardo, sebbene uno sforzo di miglioramento sia registrabile più o meno ovunque nelle macroaree del Paese, sebbene con intensità diverse. A livello nazionale l’adozione del Piano Straordinario Nidi avviato dal Dipartimento delle politiche per la famiglia nel settembre 2007, ha stimolato un innalzamento dell’offerta di posti disponibili nei servizi di asilo nido e nei servizi integrativi a livello nazionale da 234.703 posti nel 2008 a 287.149 posti nel 2012, pari a un incremento del 22,3%. L’Unione Europea nel 2000 si era data l’obiettivo di raggiungere un tasso di copertura della domanda di servizi per la prima infanzia pari al 33%. Di fatto guardando ai tassi di copertura del bisogno i dati al 2012 evidenziano che la complessiva copertura per la popolazione 0-2 nel 2012, data dai nidi, dai servizi integrativi e dagli anticipi alla scuola dell’infanzia è pari al 24,4%, con le migliori performance nelle regioni del Nord: Nord Ovest al 25,7%, Nord Est (29,0), il Centro (27,2), nettamente superiore a quella del Sud e delle Isole (13,4%).
Come evidente le famiglie italiane non possono contare ancora oggi su una rete di servizi sociali che consenta ad entrambi i genitori di affrontare gli impegni professionali e quelli legati alle responsabilità famigliari con un minimo di serenità. Cosi ancora troppe donne rinunciano al lavoro per far fronte alla richiesta di cura che arriva dai famigliari. E in questo periodo di crisi prolungata questi fenomeni si accentuano. Mentre i dati ancora una volta parlano chiaro: dove le donne lavorano di più e possono contare su una rete di servizi di cura, i tassi di natalità crescono.