Perché e come nasce l’odio? Perché i gay sono percepiti come diversi? Perché sono una minaccia a un ordine precostituito? Nelle riflessioni di Vittorio Lingiardi, professore di Psicologia Dinamica presso l’università La Sapienza di Roma, un’analisi lucida e dettagliata delle ragioni di una discriminazione.
(L’articolo che pubblichiamo è ripreso da: Vittorio Lingiardi, “Il risveglio felice”, in Dan Savage & Terry Miller (a cura di), Le cose cambiano, Isbn Edizioni, Milano 2013).
C’è il sole, ma è inverno. Due ragazzi attraversano il parco tenendosi per mano. Su una panchina, due signore anziane sferruzzano occhialute. Li osservano. Arcigne, indignate. “Hai visto quei due?” Scuotono la testa. “Ah! Sembra impossibile!” Per un attimo respiriamo l’alito dell’omofobia, cattivo anche quando si esprime sottovoce, microaggressions in everyday life. Poi una paura cinematografica perfetta. “In maniche corte con questo freddo…”
E noi vorremmo abbracciarle, le due nonne, perché era con un raffreddore in agguato che se la prendevano. A indignarle, non era il “risveglio felice”, l’amoroso tenersi per mano. Era l’infreddatura, il problema, non l’omosessualità. I fantasmi dell’omofobia possono infestare la psiche in vari modi. Alcuni hanno la prepotenza del bullismo, altri possono addirittura sembrare pietosi e tolleranti (la tolleranza!, “una forma di condanna più raffinata”, diceva Pasolini). Spesso eleggono a dimora la vita interiore delle persone omosessuali stesse, con l’autodisprezzo, la vergogna, la voglia di farla finita. Si chiama minority stress e ha ripercussioni a breve e a lungo termine sulla salute psichica e fisica.
Da un punto di vista psicologico, l’avversione o la diffidenza nei confronti di gay e lesbiche deriva dalla preoccupazione per un disordine, qualcosa di “fuori posto” rispetto all’identità e ai ruoli di genere, una sorta di disagio all’idea che vi sia qualcosa di “femminile” in un uomo e di “maschile” in una donna. Da qui il bisogno di darsi una rassicurazione riguardo alla propria “mascolinità” o “femminilità”. Un fondamento dell’omofobia, infatti, consiste in una sorta di polarizzazione difensiva dei ruoli di genere, che porta a temere o disprezzare i fantasmi di passività e dipendenza nell’uomo e di attività e autosufficienza nella donna. Si tratta di una difesa abbastanza primitiva, ancorata a un’idea ingenua e concreta dell’anatomia e della scena dell’accoppiamento – ma terribilmente efficace nel lasciare le cose “al loro posto”.
Le radici dell’omofobia sono varie, di solito intrecciate tra loro. Alcune sono arcaiche: l’incubo di un mondo che non si riproduce (come se lesbiche e gay non fossero fecondi, e madri e padri); i fantasmi angoscianti, già descritti dall’ultimo Freud, della passività maschile e dell’attività femminile; la paura trasformata in odio per ciò che viene percepito diverso e/o straniero; la negazione dei propri interessi omosessuali. Altre, più “aggiornate”, sembrano nutrirsi dell’innegabile aumento della visibilità omosessuale – nella vita domestica, nella giurisdizione internazionale, nell’immaginario collettivo. Se in passato, lo scandalo era la “devianza”, oggi ciò che preoccupa e spaventa, fino all’odio, è la possibilità di una normalità omosessuale e della sua realizzazione affettiva e familiare. L’omofobo di oggi vuole punire chi si permette di appartenere al tessuto sociale. Il problema, dunque, è la cittadinanza.