L’omofobia è un sentimento d’odio che vive intorno a noi, che si manifesta con l’insulto, il disprezzo, la violenza fisica. Sono tanti gli episodi che, quasi ogni giorno, ci raccontano di ragazzi e ragazze vittime di omofobia, spesso costrette a nascondersi o a vivere segretamente il loro amore, per paura, per vergogna. Storie che raccontano un malessere e una non accettazione della diversità. In molti casi, purtroppo, con un tragico epilogo. Vox ha raccolto la testimonianza di Andrea, un giovane ragazzo omosessuale, che ci racconta cosa vuol dire confrontarsi ogni giorno con il disprezzo altrui.
Lo so, non dovrei essere così prevedibile. Mi piacerebbe credere che oggi, duemilaquattordici, l’omofobia in Italia sia un pregiudizio relegato alla provincia o ai quei piccoli paesi del meridione, rimasti appesi alle vecchie tradizioni locali o semplicemente non ancora in grado di cogliere le “novità”. Mi piacerebbe pensare che l’omofobia sia un problema sopravvalutato, che in fondo nella mia breve vita sono stato accettato e accolto tranquillamente da tutti. Che la cosa direttamente non mi riguardi. Eppure, tutto questo non è altro che un modo come tanti di ovviare un problema che invece c’è e continua a esistere. E che vive e sopravvive, ogni giorno, sotto i nostri occhi. Indistintamente. Ovunque e comunque.
Antivigilia di Natale. Corso Vittorio Emanuele, pieno centro di Milano. Due ragazzi camminano frettolosamente per superare la folla che in quei giorni si riversa nelle vie del centro in cerca dei canonici regali da ultimo minuto. Passano a fianco a un uomo. Uno a destra, l’altro a sinistra. Un modo come tanti di accelerare il passo e trovare un’uscita da quel labirinto di persone, che in quei giorni in città sembrano ancora più numerose. Una sciocchezza per quei due, un vero e proprio affronto per quell’uomo che subito si appresta a rincorrerne uno, superarlo, spintonarlo, per poi tornare indietro. E urla “io non passo in mezzo a due froci di merda”.
Dieci parole. Dieci parole, che fanno più male di quello spintone. Ti entrano dentro. Riecheggiano nella testa. Perché anche se non sono stato io ad essere urtato da quello sconosciuto, vedere la persona che amo essere insultata e spinta per una ‘questione d’onore’ così apparentemente banale mi ha turbato. Più di un’occhiata strana. Più di una risatina sentita accidentalmente. Più delle urla rabbiose “froci di merda” che facevano da eco mentre ci stavamo allontanando e che hanno attratto le occhiate incuriosite dei passanti.
Questioni di precedenza. Da qui scaturiva tutta quella rabbia. Nessun bacio, nessuna passeggiata mano nella mano. Nessun gesto che potesse urtare la sensibilità della gente comune, ancora forse non in grado di vedere coppie di persone dello stesso sesso frequentarsi serenamente alla luce del sole. Lo so, non dovrei essere prevedibile. Dovrei ripetermi che quello che mi è successo quel giorno è solo la reazione esagerata di un ignorante qualunque, che la realtà è diversa. Eppure, quando penso a come mi sono sentito dopo quell’episodio, mi rendo conto che non c’entra l’abitudine, non conta una risatina o uno spintone, non importa se a Milano o in un paesino sperduto della Sicilia, l’omofobia va eliminata. Ovunque e comunque. Indistintamente. Oggi, domani, sempre.