NEWS: Google risponde alla sentenza della Corte di Giustizia. Da oggi, infatti, i cittadini europei potranno compilare un modulo online (lo trovate qui) per ottenere, se vi sono i requisiti, la rimozione dei link e delle pagine web, che li riguardano.
Lo scorso 13 marzo la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha dichiarato i motori di ricerca responsabili del trattamento dei dati personali. Secondo la sentenza della Corte, gli interessati possono richiedere la deindicizzazione di una pagina web, se questa contiene notizie inesatte o che ledono alla propria immagine o reputazione. Una svolta cruciale per il motore di ricerca di Mountain View, che potrebbe compromettere il futuro della circolazione delle informazioni online. Per Vox, il commento di Marco Bassini, esperto di diritto dei media dell’Università Bocconi.
La Corte di giustizia dell’Unione europea si è pronunciata lo scorso 13 marzo con una sentenza (caso Google Spain, C-131/12) destinata a segnare un punto di non ritorno nel quadro di tutela dell’identità personale su Internet. Ribaltando, non senza sorpresa, larga parte delle conclusioni che erano state rassegnate nel giugno dello scorso anno dall’Avvocato generale, la Corte ha affermato che il diritto dell’Unione europea consente agli interessati di ottenere la rimozione dai risultati dei motori di ricerca di collegamenti a contenuti ritenuti offrire una rappresentazione non più attuale della loro personalità.
Si tratta di un punto di svolta cruciale, che passa attraverso un’interpretazione comunque non immune da riserve della direttiva 95/46/CE sul trattamento dei dati personali. La Corte non sembra essere rimasta insensibile, peraltro, alla proposta di regolamento sulla tutela dei dati personali consegnata nell’ormai lontano 2012 dalla Commissione europea, che all’art. 17 prevede espressamente il riconoscimento del diritto all’oblio nei confronti dei titolari dei dati personali.
Il ragionamento seguito dalla Corte di Lussemburgo si snoda attraverso una serie di passaggi fondamentali.
Anzitutto, la Corte ha ritenuto che l’attività effettuata da un motore di ricerca, consistente nell’indicizzare i contenuti delle pagine web, concreta un “trattamento di dati personali” ai sensi della Direttiva 95/46. La circostanza che il gestore del motore di ricerca sia “terzo” rispetto ai contenuti indicizzati ed effettui tali operazioni in modo del tutto automatico, senza avere contezza del fatto che anche dei dati personali siano contenuti nei siti sorgente, non vale nell’opinione della Corte a escludere l’esistenza di un trattamento. Trattamento di dati personali che è da ritenersi distinto e separato da quello compiuto, invece, dal gestore del sito, il quale a sua volta pubblichi fra i propri contenuti informazioni personali.
Questa premessa consente alla Corte di qualificare il gestore del motore di ricerca come “titolare del trattamento” (espressione erroneamente tradotta in “responsabile del trattamento” nella versione italiana della Direttiva), vale a dire il soggetto che determina finalità e strumenti del trattamento. Passaggio non banale, perché se da un lato rende vincolanti per il titolare del motore di ricerca le previsioni che affidano all’interessato il potere di richiedere la modifica o l’eliminazione dei propri dati personali, dall’altro potrebbe aprire a scenari controversi, nei quali si potrebbe financo ipotizzare che il motore di ricerca debba ottenere il consenso degli interessati per effettuare la proprie attività.Il passaggio successivo, infatti, consiste nell’individuare in alcune previsioni della direttiva 95/46/CE, e segnatamente nell’art. 12 e 14, il fondamento del diritto all’oblio. Stando all’art. 12, lett. b) infatti, l’interessato ha diritto di ottenere la cancellazione, la rettifica o il congelamento dei dati, ove il loro trattamento non sia conforme ai principi della direttiva. Quest’ultimo inciso, secondo la Corte di giustizia, va interpretato in senso ampio, sì da comprendere ogni ipotesi di difformità del trattamento dei dati rispetto ai principi e alle norme enunciati dalla direttiva, e non solo –come invece aveva sostenuto, aderendo a un’interpretazione più conforme al tenore letterale della norma, l’Avvocato generale- nel caso di dati incompleti o inesatti. In aggiunta, parimenti rilevante è –ad avviso della Corte- l’art. 14, c. 1, lett. b) della direttiva, laddove consente all’interessato di opporsi al trattamento di dati personali “per motivi preminenti e legittimi derivanti dalla sua situazione particolare”. Anche a questo proposito prevale un’interpretazione “a maglie larghe” che sembra aprire a una tutela più ampia rispetto a quella prevista dal dettato normativo. Così, nell’opinione dei giudici di Lussemburgo, un dato originariamente esatto e aggiornato può per effetto del semplice corso del tempo divenire non più corretto, così dando luogo a un trattamento non conforme alla Direttiva.
Unendo queste conclusioni, la Corte giunge ad affermare che gli interessati, in presenza di un trattamento di dati personali non conforme ai principi della direttiva (quando, per esempio, una notizia risulti risalente o inesatta perché non aggiornata), possono esigere dal motore di ricerca la deindicizzazione delle pagine web, anche a prescindere dalla rimozione di queste ultime da parte dei rispettivi gestori. Ove la richiesta dell’interessato non sia accolta, poi, sarà l’autorità amministrativa o giudiziaria a poter ordinare al motore di ricerca di procedere alla rimozione, sempre che –tuttavia- sia rispettato un bilanciamento degli interessi in gioco. Secondo la Corte, infatti, occorre comunque tenere in considerazione l’interesse della collettività a reperire informazioni, che potrebbe riuscire sacrificato a seconda delle circostanze e delle notizie coinvolte dalla richiesta. Tale conclusione trova indirettamente conferma nell’affermazione della Corte per cui alla rimozione dei collegamenti dai risultati generati dai motori di ricerca non necessariamente si dovrà accompagnare l’eliminazione del rispettivo contenuto dal sito sorgente, richiesta comunque da esperirsi separatamente –nel caso- nei confronti del titolare del sito: la rimozione dei risultati di ricerca, infatti, risponde a un contemperamento tra gli interessi in gioco. Quello, da un lato, generale all’informazione e, dall’altro, singolare, alla tutela dell’identità personale. Questa soluzione, pur segnando certamente una svolta sul fronte della tutela dei diritti degli interessati, potrebbe tuttavia determinare conseguenze eccessivamente rigorose per i gestori dei motori di ricerca: i quali rischiano di vedersi ora gravati di una serie di richieste di cancellazione che potrebbero di fatto stravolgere il loro modo di operare, tenendo altresì conto che tali soggetti svolgono comunque un ruolo cruciale per la diffusione di informazioni. Senza contare, d’altro canto, il danno che la cancellazione dei link dai motori di ricerca potrebbe –se generosamente avallata- arrecare al diritto dei gestori dei siti Internet (specialmente dei siti informativi) a una circolazione più ampia possibile, attraverso i motori di ricerca, dei propri contenuti.
Sarà tutto più chiaro, forse, di fronte alle prime applicazioni pratiche.