Da oltre vent’anni, la Costituzione italiana è al centro di disegni di legge e progetti di modifica che mirano a modificarne la seconda parte, ovvero quella che disciplina i ruoli e i rapporti delle istituzioni come il Parlamento, il Governo e il Presidente della Repubblica. Oggi, in occasione della Festa della Repubblica, proviamo a fare un punto con Stefano Catalano, esperto di diritto costituzionale dell’Università degli Studi di Milano.
Guarda qui la scheda di Vox sulla riforma costituzionale.
La discussione sulle riforme costituzionali è al centro del dibattito politico ormai da decenni. Dal primo tentativo, quello della Commissione Bozzi istituita nel 1983, si sono via via accumulati non solo disegni di legge, ma anche importanti progetti di modifica della seconda parte della Costituzione redatti da Commissioni bicamerali appositamente istituite. Nessuno di questi, però, ha avuto esiti positivi. La seconda parte della Costituzione, vale la pena di ricordarlo, è quella che disciplina i rapporti fra gli organi di vertice della nostra Repubblica (Parlamento, Governo, Presidente della Repubblica), ossia quella che si chiama tecnicamente forma di governo. Ma non solo. Questa parte della Costituzione regola anche le funzioni delle autonomie locali, nonché degli organi di garanzia.
Il tema più discusso è stato quello del rapporto fra Parlamento e Governo, nonché il superamento del bicameralismo perfetto, accanto alla necessità di delineare un nuovo equilibrio fra lo Stato e gli altri enti locali. La proposta di cui oggi si parla modifica numerosi articoli della Costituzione. Essa tocca sostanzialmente due aspetti. Da una parte, si supera il principio del bicameralismo perfetto, ossia il principio in base al quale la Camera e il Senato svolgono le stesse identiche funzioni. Dall’altra, si agisce sulle norme costituzionali relative alla distribuzione delle funzioni legislative fra Stato e Regioni. Si tratta di due questioni che vengono considerate assieme ed in maniera coordinata fra loro. Dopo che la Corte costituzionale ha prestato attenzione alle ‘ragioni’ dello Stato, interpretando in senso ampio i settori di competenza del Parlamento nazionale come delineati dalla riforma del Titolo V, oggi si tende nuovamente a corregge in senso ‘centralista’ la lettera della Costituzione.
In sintesi, si supera l’attuale bicameralismo trasformando il Senato della Repubblica nel “Senato delle autonomie” e si rivede la distribuzione delle funzioni legislative fra Stato e Regioni.
Quanto al Senato, va segnalato che quello che oggi si chiama Senato della Repubblica viene ‘battezzato “Senato delle Autonomie”. Non si tratta solo di un aspetto formale. Esso diventa l’organo rappresentativo delle istituzioni territoriali e, oltre a vedere profondamente riviste le sue attribuzioni legislative, (approva, insieme alla Camera dei deputati, le leggi costituzionali e potendo deliberare, per le leggi ordinarie, proposte di modificazione che in alcuni ambiti possono as-sumere una particolare forza nel procedimento) viene chiamato a svolgere la funzione di raccordo tra lo Stato e le regioni, le città metropolitane e i comuni. Ciò ha delle conseguenze anche sulla sua nuova composizione. Ne faranno parte i Presidenti delle giunte regionali e delle province autonome di Trento e di Bolzano, i sindaci dei comuni capoluogo di regione e di provincia autonoma, nonché, per ciascuna regione, due membri eletti, con voto limitato, dal Consiglio regionale tra i propri componenti e due sindaci eletti dagli altri sindaci della medesime regione.Tanto detto, più che riflettere su aspetti tecnici, sembra importante dire qualche cosa sul disegno complessivo e sulle possibili prospettive e sviluppi in sede di esame parlamentare della proposta del Governo Renzi.
A prima vista forse può vedersi una contraddizione fra i due pilastri della riforma. In effetti si delinea un Senato che dovrebbe, nelle intenzioni, ispirarsi al modello delle camere rappresentative delle autonomie nei sistemi federali, mentre si limitano le attribuzioni delle regioni, andando nella direzione opposta a quanto di solito avviene proprio in questi sistemi. Questi ultimi, infatti, si caratterizzano per il fatto che le articolazioni territoriali più importanti (ossia gli stati federati o le regioni) si vedono assegnate importanti competenze legislative. Da noi, invece, si va nella direzione opposta. Si deve dire che allora la riforma non ha una sua razionalità? La risposta non è sicuramente univoca. Si potrebbe dire però che il Senato delle autonomie, che può intervenire in molti ambiti della competenza legislativa statale, diventa una sorta di assemblea di confronto fra Stato e regioni. Insomma, le regioni perdono sulla carta importanti competenze, ma recuperano un ruolo, assieme alle altre autonomie territoriali, in sede di approvazione delle discipline che le riguardano. Se fosse questa la logica, allora, si potrebbe inserire nel disegno di legge qualche norma volta a rafforzare il Senato come sede di confronto fra Stato e regioni. Ad oggi, infatti, la proposta di revisione costituzionale non prende in considerazione il sistema delle intese che, sino ad oggi, è stato il meccanismo più efficace di raccordo fra enti. In conclusione vale la pena di dire qualche cosa sul futuro del disegno di legge. Il giurista, si sa, non è spesso un buon profeta. Tuttavia, sembra difficile immaginare che la riforma venga approvata senza modifiche. Ciò è dimostrato dall’approvazione dell’ordine del giorno proposto da Roberto Calderoli che fra l’altro prevede il ritorno all’elezione diretta del Senato.
Un aspetto molto interessante, su cui a seguito dell’ordine del giorno di cui si è detto ora si dovrà discutere, è la possibilità di consentire al Senato, in alcune ipotesi, di chiedere alla Corte costituzionale di pronunciarsi sulla legittimità costituzionale di una legge prima della sua promulgazione. Si tratta di un tema complesso che meriterebbe un intervento specifico. Qui basti ricordare che un simile meccanismo di controllo a priori eleva di molto il tasso di politicità delle questioni esaminate dal giudice costituzionale. Ciò è quanto dimostra bene l’esperienza costituzionale francese. Solo il tempo ci dirà se l’ennesima proposta di modifica della Costituzione avrà delle chances concrete di essere approvata. Se ciò avverrà la nostra Repubblica, nata nel 1946 e di cui in questi giorni si celebra il ‘compleanno’, assumerà una veste in parte nuova. Quanto questa veste sia capace di dare un rinnovato ‘fascino’ alla nostra Repubblica, sempre che di nuovo fascino abbia effettivamente bisogno, non è dato sapere.
Quel che è certo è che la festa del II giugno sarà, indipendentemente dalla riforma del Senato – per ora della Repubblica domani, forse, delle autonomie –, ancora la festa della Repubblica.
Per ulteriori approfondimenti si veda l’intervento di Marilisa D’Amico qui e i contributi ospitati sul sito dell’Associazione italiana dei costituzionalisti.