Sono due le sentenze che hanno apportato modifiche importanti e significative nel quadro della tutela del diritto di fine vita. Vediamole nel dettaglio.
La Sentenza n. 21748 del 2007
Si tratta di una sentenza storica per l’autodeterminazione terapeutica del malato in Italia.
Secondo i giudici, anche i pazienti che non siano in grado di manifestare la propria volontà a causa del loro stato di totale incapacità, hanno il diritto di vedere riconosciuta la loro libertà di scelta in ambito terapeutico. Tale diritto comprende sia quello di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, sia quello di rifiutare le terapie, anche quando queste portano alla morte del paziente.
La Corte ha sancito che l’alimentazione artificiale, in quanto trattamento sanitario, può essere interrotta su autorizzazione del giudice. Per la precisione, i giudici hanno affermato che, su istanza del tutore del malato, l’organo giudicante possa ammettere la disattivazione di quei presidi sanitari che provvedono alla nutrizione ed idratazione del paziente in stato vegetativo.
Il tutore, dunque, diventa la voce del paziente che si trovi in una condizione di totale incapacità di rapportarsi con il mondo esterno.
La Corte aggiunge che, nell’accertare la legittimità della richiesta, il giudice deve verificare due presupposti:
– Il quadro clinico deve essere irreversibile e non ci deve essere alcuna possibilità di recupero per il paziente.
– La richiesta di autorizzazione alla disattivazione del presidio sanitario deve essere realmente espressiva della volontà del paziente e si deve poter dedurre da elementi chiari ed univoci, in base alla sua personalità, lo stile di vita e ai suoi valori di riferimento.
La Sentenza del Consiglio di Stato del 4 settembre 2014.
Con questa sentenza, il Consiglio di Stato respinge l’appello proposto dalla Regione Lombardia contro la Sentenza del TAR, che ha dichiarato illegittimo il decreto con cui la Giunta Regionale vietava la sospensione delle terapie che tenevano in vita Eluana (leggi qui).
I Giudici non ammettono che tale inattività legislativa possa risolversi nel rifiuto, da parte delle strutture sanitarie, di eseguire le prestazioni mediche. L’amministrazione sanitaria non può sottrarsi al dovere di curare il malato. Con il termine “cura”, sottolinea il Consiglio, non si intendono solo quei trattamenti che rappresentino un “beneficio” per il paziente. È il malato, in virtù del fondamentale principio di autodeterminazione, a scegliere quale sia la sua “cura”. L’“alleanza terapeutica” che unisce medico e malato, ribadiscono i giudici, è volta alla ricerca di ciò che è bene per il malato “alla luce dei percorsi culturali di ciascuno”.
Nel caso di rifiuto delle cure, l’atteggiamento dell’ordinamento deve essere quello di supportare il malato, in un momento di così grande sofferenza, e non di ostacolarlo nell’esercizio del proprio diritto alla salute.