Cittadinanza più rapida per i bambini stranieri; ius culturae (per chi conclude un ciclo scolastico) e ius soli temperato (legato alla permanenza dei genitori su suolo italiano) come nuove forme di accesso al diritto di cittadinanza. Sono queste, le proposte alla base del disegno di legge sulla cittadinanza proposto dal Governo Renzi e che, si spera, diventi legge entro il 2015. In Italia, infatti, sono quasi 4 milioni i cittadini stranieri. Il 3% in più rispetto solo allo scorso anno. Per Vox, il commento di Isabella Menichini, dirigente pubblico esperto di politiche e diritti sociali.
L’Italia, lo sappiamo bene, è un Paese che ha gli occhi sempre rivolti al passato più che al futuro. Ma questo è particolarmente vero quando parliamo di diritti civili. Anche il Presidente del Consiglio lo sa e per questo che ultimamente ha sollevato diversi volets sui quali l’Italia registra un ritardo oramai imbarazzante.Uno di questi riguarda la riforma della legge sulla cittadinanza. Una legge, la numero 91 del 1992 (qui il testo completo), scritta con lo “sguardo rivolto all’indietro”, come correttamente commentato da Giovanna Zincone – una delle massime esperte italiane in tema di immigrazione – nel Primo Rapporto sull’Integrazione del 1999. “In Italia – scriveva allora Zincone – con la legge del 1992 siamo andati controcorrente. La nuova legge sulla cittadinanza ha aumentato da 5 a 10 gli anni di residenza richiesti per poter fare domanda di naturalizzazione – la cui accettazione rimane tuttora legata a criteri di discrezionalità”.
Passi in avanti da allora, sotto il profilo normativo, non se ne sono visti. La legge italiana sulla cittadinanza, diversamente da quanto avviene in molti paesi europei, è una legge fondata sul principio di trasmissione per ius sanguinis – e non per ius soli – quindi da genitori a figli. Una legge, scritta per rafforzare i legami tra il nostro Paese e gli italiani che vivono – magari da decenni – all’estero, quando addirittura all’estero non ci sono nati.
Secondo l’articolo 1 della suddetta legge è cittadino per nascita:
a) il figlio di padre o di madre cittadini italiani;
b) chi è nato nel territorio della Repubblica se entrambi i genitori sono ignoti o apolidi, ovvero se il figlio non segue la cittadinanza dei genitori secondo la legge dello Stato al quale questi appartengono; 2. è considerato cittadino per nascita il figlio di ignoti trovato nel territorio della Repubblica, se non venga provato il possesso di altra cittadinanza.
Quindi, una legge per la cittadinanza approvata nel 1992 guardando all’Italia come ad un Paese di emigrazione, senza tener conto che proprio in quegli anni il nostro Paese stava cambiando la sua vocazione: da terra di emigrazione, a polo di attrazione di flussi migratori. Tanto l’Italia “cambiò verso” in un lasso di tempo così breve, che da un numero di presenze straniere di poco superiore al milione nell’Anno 2000 – con un ritmo di crescita di presenze pari a circa l’8% – ai nostri giorni l’ISTAT registra regolarmente presenti in Italia 3.874.726 cittadini non comunitari con un incremento tra il 2013 e il 2014 del 3%. I minori presenti in Italia costituiscono il 23,9% degli stranieri: sono stati registrati al all’inizio di questo anno nuovi nati 77.638. Della popolazione straniera, infine, circa la metà è rappresentata dalle donne anche se la componente femminile è tradizionalmente molto variabile a seconda delle collettività di riferimento.
Non altrettanto immobile invece è stato da allora ad oggi il movimento culturale, la presa di coscienza e di posizione di tante associazioni e istituzioni: un’onda crescente intorno al tema della cittadinanza, con un’attenzione forte sul tema della cittadinanza per le nuove generazioni di stranieri: le seconde – se non addirittura terze generazioni – di immigrati, ragazzi e ragazze, bambine e bambini che pur essendo nati nel nostro Paese non sono cittadini italiani a tutti gli effetti. L’articolo 4 della legge 91 consente infatti loro di accedere al diritto di cittadinanza italiana, solo se in grado di dimostrare di aver risieduto “legalmente senza interruzioni fino alla maggiore età”. All’indomani del compimento del diciottesimo anno ed entro l’anno, possono presentare una dichiarazione di volontà da rendere all’ufficiale di stato civile, ma devono poi dimostrare di avere i titoli. E invece non sempre risulta facile per loro poter dimostrare una permanenza ininterrotta. Va detto che un primo segnale di attenzione è giunto nel 2013 con il “Decreto del fare” (d.l. 69/20013 convertito con modificazioni con legge 98/2013) dopo tanti stimoli e prese di posizioni – anche da parte del Capo dello Stato – sull’importanza di rimettere mano alla normativa. Il “decreto del fare” ha introdotto alcune norme di semplificazione e trasparenza per aiutare i maggiorenni stranieri ad ottenere la cittadinanza italiana: così, ad esempio, inadempienze dei genitori o degli uffici pubblici non potranno essere più invocati come motivi di diniego al riconoscimento della cittadinanza e il giovane richiedente potrà dimostrare con ogni documentazione idonea la sua permanenza in territorio nazionale (es. certificati medici, scolastici). Non è molto, ma è sempre un segnale.
In questi giorni il Presidente Renzi sembra aver deciso un’accelerata sui temi dei diritti civili e quindi ha confermato un impegno della maggioranza nel superare l’impasse sulla cittadinanza. In Parlamento sono circa venti le proposte depositate dalle forze politiche di maggioranza e opposizione (fatta eccezione per Lega nord e Fratelli d’Italia), tutte orientate a introdurre una forma di ius soli anche nel nostro paese. Un progetto unitario ancora non esiste, ma sicuramente il tema che avvicina di più gli schieramenti è proprio quello dello seconde generazioni. Le due relatrici della legge Marilena Fabbri (Pd) e Annagrazia Calabria (Fi) stanno cercando di arrivare ad una sintesi delle diverse posizioni, a partire dalla due ipotesi prevalenti: il riconoscimento del principio dello ius soli temperato (che lega il diritto della cittadinanza per nascita al tempo di permanenza legale dei genitori sul suolo italiano), o quello dello ius culturae (che lega la cittadinanza alla frequenza della scuola dell’obbligo in Italia). Nel primo caso il requisito principale è l’essere nato in Italia, ma “temperato” – quindi condizionato – dal tempo di permanenza legale dei genitori sul suolo italiano. Un tempo congruo si dice, e sul quel congruo le discussioni certamente non mancheranno: si va da chi chiede un anno di permanenza, chi tre e chi cinque anni. La “Rete delle Seconde Generazioni” chiede che la norma consenta di entrare a scuola da italiani, così da scoraggiare tanti casi di bullismo e discriminazione nei confronti degli studenti stranieri.
In realtà l’accordo sembra più vicino sullo ius culturae: anche Renzi fa riferimento all’opportunità di legare la cittadinanza ad un “percorso scolastico”. Anche in questa parte del campo le differenze tuttavia non mancano: c’è chi ritiene sufficiente un solo ciclo scolastico (le elementari), chi ritiene indispensabile ai fini dell’ottenimento della cittadinanza l’intero ciclo della scuola dell’obbligo (8 anni) e chi pensa anche al superamento della Terza media: ciò vuol dire andare da un’età di 10/11 anni al compimento dei 14. Se si decidesse per questa ultima strada probabilmente molti sarebbero scontenti, soprattutto le tante associazioni che si sono formate in questi anni, la rete G2 e le associazioni della campagna “l’Italia sono anch’io”. Una mediazione potrebbe venire dall’incrocio delle due proposte: lo ius culturae sarebbe il principio di riferimento per i bambini e bambine nate all’estero e poi ricongiunte in Italia, mentre la mediazione tra le due ipotesi potrebbe convergere sul riconoscimento della cittadinanza a chi è nato in Italia, da genitori legalmente soggiornanti, prima dell’inizio della scuola elementare cioè intorno ai cinque anni.
Non ci resta che aspettare e vigilare attentamente che la maggioranza di Governo e il Parlamento non facciano pastrocchi nel tentativo di mediazioni impossibili.
Nel frattempo, diversi Sindaci, che hanno dimostrato in questi anni di essere le uniche istituzioni attente ai diritti umani e civili, hanno trovato una loro strada per dare un riconoscimento seppur non legale ai giovani stranieri: secondo i dati dell’Unicef sono almeno 246 i Comuni che hanno aderito alla proposta avanzata dalla stessa Agenzia delle NU e dall’Anci. Tra questi: Milano, Torino, Bologna, Parma, Napoli, Pordenone, Perugia, L’Aquila, Catanzaro, Savona, Arezzo, Cremona, Ferrara, Salerno, La Spezia.
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