La conquista del principio universale di uguaglianza è oggi messa profondamente in crisi da vari fattori: i diritti non possono essere soltanto garantiti in astratto, ma vanno assicurati in concreto e, soprattutto, devono essere riconosciuti e realizzati in un mondo dove contano sempre di più le differenze fra individui. Ecco perché in Europa il principio di uguaglianza si accompagna a quello di non discriminazione: non basta affermare che siamo tutti uguali, occorre anche non trattare in modo uguale situazioni differenti e garantire a chi è o si trova in una posizione di diversità uguale trattamento. Ecco perché partendo dal principio di eguaglianza contenuto nella nostra Costituzione possiamo già enucleare diverse condizioni: il sesso, la razza, la religione, le diverse condizioni personali e sociali.
Le “discriminazioni” in Europa non sono difese genericamente, ma vengono protette nella loro specificità, riconosciuta nei documenti principali. Si parla infatti di sei tipi di discriminazioni: genere, religiosa, etnico-razziale, orientamento sessuale, età, disabilità. Rispetto ad ognuna di queste discriminazioni si sviluppano norme di tutela, decisioni giurisprudenziali, prassi.
La mappatura delle espressioni “di odio” parte proprio dall’esigenza di riconoscere, con uno strumento diverso da quello normalmente utilizzato per valutazioni di tipo sociologico e giuridico, l’esistenza di una resistenza “sociale” alla tolleranza e all’accettazione delle diversità. Le parole denunciano discriminazione e contribuiscono in gran parte a mantenerla.
E non è con la legge o con una sentenza che si possono modificare impostazioni culturali così radicate: certamente chi scrive una legge e chi giudica deve però conoscere la realtà su cui vuole incidere per raggiungere i propri obiettivi.