Le teorie del gender sono ormai una realtà accettata da studiosi ed esperti a livello internazionale, tanto che il loro valore è stato riconosciuto da organizzazioni prestigiose, come l’American Psychological Association, e istituzionali, come l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Eppure, si assiste in modo allarmante al diffondersi di campagne antigender, orchestrate dalla destra ultracattolica, e che coinvolgono anche alcuni sindaci. Campagne, che si nutrono di pregiudizi, diffondono falsità e arrivano, come è successo a Venezia, a bandire i libri “sospetti” da biblioteche e scuole. Un fenomeno esploso con l’ultimo Family day, che presenta risvolti inquietanti, primo tra tutti il rivivere di intolleranza e di forme insidiose di oscurantismo. “Là dove si bruciano i libri, si finisce per bruciare anche gli uomini”, come aveva profetizzato lo scrittore Heinrich Heine. Ecco una breve scheda e l’intervento di Vittorio Lingiardi, pubblicato pochi giorni fa sul blog de La 27esima ora. Dove si ribadisce che più che di ideologia di gender si dovrebbe parlare di occasioni per “educare al rispetto”.
Che cosa dice la teoria del gender
Le teorie gender nascono negli anni ’50 e si diffondono come approccio multidisciplinare durante gli anni ’60. Alla base, la distinzione tra due concetti: quello di sesso e quello di genere. Mentre il primo si riferisce esclusivamente alla dimensione corporea di una persona (la sua anatomia), con la seconda si indica sia la percezione che ciascuno e ciascuna ha di sé in quanto maschio o femmina (identità di genere), ma anche il sistema socialmente costruito intorno a quelle stesse identità (ruolo di genere). La possibilità che ci possa essere discontinuità tra corpo, immagine di sé e ruoli è proprio il punto focale di questa teoria.
Chi si oppone
I più critici: alcune associazioni cattoliche e alcuni movimenti conservatori che, in vista della possibilità di introdurre nelle scuole percorsi formativi e di sensibilizzazione sul gender, li considerano dei mezzi per diffondere una “ideologia del gender” con bambini indottrinati e confusi.
Ma non solo, anche alcuni sindaci, da qualche mese, stanno via via prendendo posizioni contrarie: ha iniziato a giugno Venezia, che ha visto il primo cittadino Luigi Brugnaro vietare nelle scuole 49 libri accusati di parlare di gender, tra cui molti di favole per bambini (l’elenco dei titoli è in costante aggiornamento: proprio in questi giorni se ne sono aggiunti altri 13). Sono poi arrivati i sindaci di Prata, in provincia di Pordenone, e recentemente di Prevalle e Capriolo, in provincia di Brescia. Il motivo: “si tratta di teorie ideologiche e pericolose per bambini e adolescenti”.
Le esperienze in Italia
Sono diverse, le realtà che hanno preso vita in tutta Italia per sensibilizzare i ragazzi sul tema del genere. Un esempio interessante è quello di 16 scuole di Roma che, con l’associazione Scosse, ha promosso lo scorso anno La scuola fa la differenza, una serie di incontri rivolti a più di 200 educatori e insegnanti di scuole dell’infanzia e asili nido. “Lavoriamo per capire come vengono costruiti e trasmessi gli stereotipi di genere” ha spiegato Monica Pasquino, presidentessa dell’associazione organizzatrice, “e costruiamo insieme progetti e percorsi didattici per superarli”.
Sempre a Roma, l’assessorato alla Scuola ha promosso, in collaborazione con l’università La Sapienza, il progetto rivolto alle scuole superiori Le Cose Cambiano, un’iniziativa nata per “rilevare le esperienze degli studenti e insegnanti, sensibilizzare sul tema del bullismo omofobico, promuovere prosocialità e benessere nelle scuole e lottare contro l’omofobia subita dagli adolescenti in città”.
Negli ultimi anni anche la provincia di Siena, tramite Rete Lenford, ha coordinato una rete di associazioni impegnate in percorsi didattici contro le violenze di genere e il bullismo, mentre in Friuli Venezia Giulia, da 5 anni l’Arcigay, si occupa del progetto A scuola per conoscerci, contro ogni forma di intolleranza e discriminazione.
Vittorio Lingiardi: “Educare al rispetto” (da: La 27esima ora)
Ma che cosa dobbiamo fermare? La diffusione di teorie che, come afferma un autorevole e unanime pronunciamento dell’Associazione Italiana di Psicologia:
- fanno «chiarezza sulle dimensioni costitutive della sessualità e dell’affettività»,
- offrono «occasioni di crescita personale e culturale ad allievi e personale scolastico»,
- riducono «le discriminazioni basate sul genere e l’orientamento sessuale nei contesti scolastici»,
- contrastano, con corrette metodologie didattico-educative, il dilagare di «fenomeni come bullismo omofobico, discriminazione di genere, cyberbullismo»,
- valorizzano «una cultura dello scambio, della relazione, dell’amicizia e della nonviolenza»?
Oppure le affermazioni di:
- leader politici che chiedono di fermare l’immigrazione, in particolare dai paesi musulmani (in quanto musulmani), paragonano una ministra a un orango o auspicano che i campi rom siano rasi al suolo?
- dirigenti sportivi che, riferendosi a squadre di calcio femminile, dicono”basta dare a soldi a queste quattro lesbiche?”
- esponenti religiosi che paragonano il matrimonio tra persone dello stesso sesso a una «vera aggressione, per non dire uno stupro, di ciò che il matrimonio rappresenta»?
Dovremmo impedire le trasformazioni sociali e giuridiche che, dagli Stati Uniti alla Spagna, dal Canada alla Germania, dal Messico alla Francia, dall’Argentina all’Olanda, hanno posto fine all’esistenza di cittadinanze minori e di affetti spogliati di dignità simbolica e sociale?
Da fermare non sarebbe invece la parola dell’odio («hate speech»)? Che, si badi bene, non è libertà di parola («free speech»), bensì parola che attacca e offende un individuo o un gruppo sociale sulla base di caratteristiche come il colore della pelle, l’appartenenza religiosa, il genere, l’orientamento sessuale. Parola di odio che può diventare incitamento e a volte crimine («hate crime»).
Qual è l’«emergenza educativa» che spinge alcune associazioni cattoliche a promuovere petizioni apocalittiche? Che induce un Sindaco a chiedere il ritiro di testi custoditi in biblioteche scolastiche? È davvero in atto un’«offensiva gender»? È giustificabile razionalmente la diffusione di spot che mostrano immagini volutamente sgradevoli di omo e transessuali mentre una voce fuori campo domanda «vuoi questo per i tuoi figli»? (…)
L’ideologia gender non esiste. È stato detto in tutti modi e da cattedre autorevoli. Esistono, al contrario, studi scientifici che hanno contribuito alla conoscenza di tematiche di grande rilievo per molti campi disciplinari (dalla medicina alla psicologia, all’economia, alla giurisprudenza, alle scienze sociali) e alla riduzione, a livello individuale e sociale, dei pregiudizi e delle discriminazioni basati sul genere e l’orientamento sessuale. Il contributo scientifico di questi studi si affianca a quanto già riconosciuto, da più di quarant’anni, da tutte le associazioni internazionali che promuovono la salute mentale (tra queste, l’American Psychological Association, l’American Psychiatric Association, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ecc.) e ribadiscono, per esempio, che l’omosessualità altro non è che una variante normale non patologica della sessualità umana. In particolare, l’Unicef ha rimarcato la necessità di intervenire contro ogni forma di discriminazione nei confronti dei bambini e dei loro genitori basata sull’orientamento sessuale e/o l’identità di genere. Un’analoga policy è da tempo seguita dall’Unesco. Rispetto al bullismo omofobico, esiste un’imponente letteratura scientifica (si veda per esempio il volume Bullismo omofobico di Ian Rivers) sui gravi effetti del fenomeno, a breve e a lungo termine, che comprendono dispersione scolastica, disturbi post-traumatici, ansia, depressione, ideazione suicidaria, suicidio.
Ma i militanti e le militanti «anti-gender» non la vedono così. La loro paura principale è che venga negato «il fondamento oggettivo della differenza e della complementarità dei sessi». E anche alcuni esponenti della Chiesa hanno evocato il rischio di «edificare un transumano in cui l’uomo appare come un nomade privo di meta e a corto di identità». Il nodo centrale, da cui scaturiscono le paure e le angosce di alcuni genitori e cittadini, è una confusione fondamentale tra il piano psicologico, sociale e culturale, e quello biologico. (…)
Occorrono narrazioni capaci di dare umanità e inventiva a tematiche che rischiano di essere oscurate dall’ideologia. Una di queste è Piccolo Uovo, di Francesca Pardi. Un libro che racconta la storia di un uovo che, per conoscere in quale famiglia nascerà, intraprende un viaggio nelle diverse tipologie di famiglia, comprese quelle fatte da due mamme o da due papà. È una favola bella, una sorta di trasposizione narrativa di ciò che possiamo leggere, per esempio, nel libro di Susan Golombok Modern families (a breve in traduzione italiana per l’editore Edra) che, come giustamente dichiara l’autrice, nasce dal bisogno reale di rispondere alle domande dei bambini.
Nel 2012 Piccolo Uovo ha vinto il premio Andersen, ma è finito comunque nella lista di proscrizione ed è stato allontanato dalle biblioteche scolastiche di Venezia. (…)
Genitori poco documentati e male informati da una propaganda sistematica finiscono per spaventarsi, temendo per esempio che da quest’anno i programmi scolastici insegneranno la masturbazione, la penetrazione, l’accoppiamento gay. Che ai bambini verrà insegnato a essere bambine, e alle bambine a essere bambini, e agli uni e alle altre a «diventare» omosessuali, secondo i dettami della «propaganda gender».
La paura e il disgusto che, in forma «proiettiva», quindi paranoidea, rappresentano come spiega la filosofa Martha Nussbaum (Disgusto e Umanità) la cinghia di trasmissione argomentativa che produce, di volta in volta (ma di solito tutti insieme), xenofobia, razzismo, antisemitismo, misoginia, omofobia, transfobia.
Meno male che ci sono addetti ai lavori (medici, psichiatri, pediatri, psicologi, giuristi, insegnanti, ecc) che si impegnano, spesso sottraendo tempo e energie alle loro professioni e alle loro ricerche, a riportare conoscenza e razionalità. (…)
Come professionisti della salute mentale non possiamo che rasserenare i genitori: nulla di terribile verrà insegnato ai loro figli, niente che possa distorcere il loro sguardo su se stessi e sul mondo. Niente che possa anche lontanamente competere con il lento avvelenamento psichico che proviene da alcuni programmi trasmessi da quella televisione davanti alla quale, senza paragonabile allarme, bambini e bambine spesso vengono parcheggiati. Al contrario, la scuola potrà offrire un’occasione in più per promuovere conoscenza e rispetto per le meravigliose varietà psicologiche e affettive che abitano il mondo. Dopo, forse, verrà più spontaneo tendere la mano che tirare un cazzotto.