Guadagnano di meno, sono meno rappresentate nei vertici aziendali, ma soprattutto ancora troppe italiane sono escluse dal mercato del lavoro. Lo dicono Istat e Ocse che fotografano un Paese che non dà risposte alla voglia e al bisogno di lavoro delle donne. Eppure, se raggiungessimo la parità di occupazione tra uomini e donne, il Pil pro capite crescerebbe. Saremmo tutti più ricchi. E più felici. Una riflessione a margine della “inevitabile” ricorrenza dell’8 marzo.
È uscito da qualche giorno nei cinema italiani, il film Suffragette. Inevitabile, siamo nei dintorni dell’8 marzo, la “giornata delle donne”. Ma al di là del discutibile bisogno di dedicare una giornata al genere femminile (siamo dei panda? Siamo una specie da proteggere?) e dell’altrettanto discutibile fiorire di iniziative “per le donne e con le donne” (perché i provider telefonici ci regalano una giornata di internet gratis? Per festeggiare che cosa?), il film è un bel film. Ambientato in una Londra plumbea nel 1903, narra le vicende di Maud (la brava Carey Mulligan), un’operaia che lavora fin dall’età di 7 anni in una malsana lavanderia londinese. Esasperata dal lavoro pesante e dalle angherie di un capo che l’ha abusata fin da quando era ragazzina, Maud si unisce alle suffragette, un gruppo di donne che lotta per il suffragio universale, anche con metodi violenti (imperdibile il cameo di Meryl Streep nei panni di Emmeline Pankhurst, leader del gruppo di donne che hanno fatto la storia).
Poi si sa com’è andata. Le donne, in Inghilterra, ottennero il voto nel 1928. Da noi, la strada sarebbe stata ancora lunga. Il diritto a votare, lo ottenemmo solo il 10 marzo 1946, questo sì un bell’anniversario da ricordare. Perché il diritto di voto è il primo, fondamentale riconoscimento di appartenenza a una comunità. Negarlo, significa creare una classe di paria. E paria le donne lo sono ancora in troppe parti del mondo (in Arabia Saudita hanno votato per la prima volta, con infinite limitazioni, solo nel dicembre scorso).
Fuor dalla metafora del panda, e dalle conseguenti lamentele, fa bene ricordare a noi stesse che l’acquisizione di diritti fondamentali non è stata né semplice né scontata per il genere femminile. E che ancora oggi manca all’appello il riconoscimento di altri diritti, altrettanto fondamentali per garantire la dignità della persona. Primo tra tutti quello al lavoro.
In dicembre è uscito l’ultimo Rapporto Istat dedicato al lavoro femminile. Ecco qualche dato.
Il tasso di occupazione delle donne italiane si attesta sul 46,8%, contro la media europea del 59,5%. Un divario, che diventa drammatico (più di 20 punti) a confronto con la Germania (69,5% di occupazione femminile) e con l’Olanda (68,1%).
In Italia, le donne che vorrebbero lavorare sono 3 milioni e 561mila (gli uomini sono meno). Sul totale delle 6 milioni e 693mila persone che potenzialmente potrebbero lavorare, il 53,2% sono donne.
E ancora.
Secondo l’Ocse, ogni donna in Italia dedica 36 ore la settimana ai lavori domestici, mentre gli uomini non vanno oltre le 14. Sono 22 ore di differenza e si tratta del divario maggiore tra tutti i Paesi industrializzati.
In Europa, il gender gap è diminuito. Da noi, è aumentato. E le donne guadagnano meno, il 12% in meno per l’esattezza, degli uomini.
Non è finita.
Il World Economic Forum ci colloca al 124esimo posto su 136 Paesi per quanto riguarda la parità degli stipendi. E in un confronto con 34 Paesi europei, proposto dal rapporto Eurofound “Women, men and working conditions in Europe”, l’Italia esce a pezzi, segnalata per una sorta di “segregazione di genere”, poiché la maggior parte delle donne che lavorano nel nostro Paese è relegata in ambiti professionali considerati tradizionalmente femminili: lavori di cura, di assistenza, di educazione.
Dunque?
Che ne facciamo dei 3 milioni e passa di donne che vorrebbero lavorare? Che ne facciamo delle loro risorse, del loro potenziale creativo, delle loro energie che non riescono a trovare uno sbocco?
Prima che fonte di sostegno economico, il lavoro, come tutti coloro che un lavoro ce l’hanno sanno benissimo, è innanzitutto fonte di sostegno psicologico. Garantisce, quando è svolto con piacere e passione, la piena espressione di sé, la possibilità di far parte di una comunità di persone, di scambiare esperienze, conoscenza, competenze. Garantisce, dunque, una vita piena. È un diritto, scolpito dai nostri padri costituenti quando hanno voluto indicare l’Italia come una repubblica democratica fondata sul lavoro.
Per questo, la questione del lavoro femminile è oggi una priorità e un’urgenza sociale.
Gli economisti calcolano che se in Italia la percentuale di donne che lavorano si avvicinasse a quella degli uomini occupati, la forza lavoro italiana crescerebbe del 7% e il Pil pro capite aumenterebbe di un punto percentuale all’anno per i successivi 20 anni.
Saremmo tutti più ricchi. Ma soprattutto più felici.
PS: Da qualche mese è nata una piattaforma che supporta l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro. Si chiama workHer e in pochi mesi di vita ha già migliaia di iscritte. Donne giovani e meno giovani, donne appassionate, donne piene di idee. Donne che non vedono l’ora di entrare nel mondo del lavoro.