Quest’anno la legge 194 compirà i suoi primi 40 anni.
Una legge presentata dal PSI nel 1971 che ha portato alla fine di pratiche denunciate a suo tempo dall’Unesco, ossia dei cosiddetti “cucchiai d’oro”, ginecologi che facevano abortire le donne in maniera clandestina previo lauto compenso e delle più economiche mammane, “donne che aiutavano le donne” con l’infuso di prezzemolo, che provoca emorragie e con i ferri da calza; senza sicurezza, senza competenza, senza sapere come affrontare le complicazioni.
La 194 continua ancora oggi ad essere discussa e osteggiata sul piano non solo ideologico-culturale, ma anche giuridico. Nonostante un referendum nel 1981 e i 35 ricorsi di asserita incostituzionalità, da ultimo quello del 2012 sollevato dal Tribunale di Spoleto che adduceva la “violazione dei diritti dell’embrione” sulla base di una interpretazione maliziosa della giurisprudenza europea, il suo impianto ha totalmente retto, con buona pace dei suoi detrattori.
E c’è un motivo del perchè è considerata una delle leggi sul tema più valide al mondo, è antiproibizionista. Frutto, quindi, di un antiproibizionismo non militante, ma lungimirante, associato alla depenalizzazione, in certe determinate circostanze, della condotta abortiva, che è stato di grande impatto sui modelli allora radicati nella società italiana che vedevano la donna come un angelo del focolare che trovava la propria realizzazione individuale nella sola maternità e in funzione della famiglia con a capo il marito/padre.
Secondo il rapporto appena pubblicato “Abortion Worldwide: Uneval Progress e Unequal Access” in seguito alla legalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza in Italia, i tassi di aborto sono diminuiti progressivamente da un picco di 16,9 aborti per 1000 donne in età riproduttiva nel 1983 a 9,8 per 1000 nel 1993.
Questo perchè l’obiettivo, raggiunto, della legge era ed è quello di uno Stato e di istituzioni che non lascino mai sole le donne, portando avanti con forza «il diritto ad una procreazione cosciente e responsabile, insieme con il riconoscimento del valore sociale della maternità», come si legge nell’articolo 1.
Qual’è invece il problema di più stretta attualità che può intaccare maggiormente i diritti e le prerogative enunciati dalla legge? Chiaramente un corretto bilanciamento tra il diritto all’obiezione di coscienza previsto e l’obbligo posto in capo alle Regione di garantire la continuità assistenziale, anche ricorrendo alla mobilità del personale.
Un vulnus, quest’ultimo, che ha portato il nostro Paese ad essere condannato per ben due volte dal Comitato europeo per i diritti sociali del Consiglio d’Europa per violazione della Carta Sociale europea che tutela la salute della donna e il diritto al lavoro del personale non obiettore.
Un serio problema nella realtà applicativa della legge che vede la sua peggiore estrinsecazione a Crotone e provincia, dove negli ultimi 5 anni l’ISTAT ha stimato che non si sono effettuate interruzioni di gravidanza, per assenza di personale non obiettore. Fortunatamente un legislatore calabrese attento ha varato a fine 2016 apposite norme “sulla corretta applicazione della legge 194 sul territorio regionale” che prevedono, appunto, la mobilità e la riorganizzazione del personale all’interno delle aziende sanitarie provinciali e delle aziende ospedaliere.
Ma la strada è ancora lunga e vicino a noi, in Polonia, le migliaia di donne che stanno manifestando in queste ore contro il progetto di legge che prevede la totale abolizione della possibilità di abortire (anche in caso di gravi malformazioni del feto), sono state additate come “lesbiche assassine di bambini”. Un triste ritorno al passato.