Introduzione
Internet ha rivoluzionato la vita delle persone, ne ha trasformato le modalità interattive, modificato i canali comunicativi, alterato il senso dello spazio e della distanza. Come la rete gettata nel mare, la inter-net cattura cose buone e cattive. L’inconsistenza e l’ubiquità dello spazio cibernetico e la sua pregnanza nel consentire la diffusione virale dei messaggi rendono, infatti, le community online il (non) luogo privilegiato dove condividere e cercare conferma del proprio “esistere” (non sempre è possibile parlare di pensiero) rispetto a un determinato argomento. Si tratta di un processo di reinterpretazione dell’altro che spesso sfida il politically correct e cerca un nuovo consenso attraverso la manipolazione di segni e parole. Una vera e propria subcultura che non solo si ritrova, ma traccia anche i confini della propria pseudo-identità attraverso uno strumento di espansione (il web) che assume velocemente forme pandemiche e cronicizza in forme aggressive l’insofferenza e il disagio quotidiano. Si crea così una condivisione di significati basata sulla combinazione di elementi discorsivi pre-esistenti (etnia, genere, religione, ecc.), l’innesto di elementi contingenti (paure, ansie, fastidi), il suggello argomentativo dei fatti di cronaca (rapine, violenze, ecc.), che, volontariamente o no, finiscono per degradare e disumanizzare l’altro.
Spesso l’hate speech online è anche connotato da elementi rafforzativi di disgusto – è frequente che compaiano attributi come “di merda” o “del cazzo. L’offesa (verso donne, omosessuali, immigrati, islamici, ebrei e disabili) passa quasi sempre per la dimensione corporea e l’atto fisico: corpi sessualmente disprezzati, deformati, mutilati, mortificati, verbalmente picchiati o stuprati. Si tratta di un bisogno primitivo, non elaborato, ma evacuato su gruppi che culturalmente rappresentano ciò che è considerato debole o inferiore. Come scriveva Cesare Pavese, forse “si odiano gli altri perché si odia se stessi”. Ecco dunque che l’insulto diventa una sorta di difesa psichica che si esprime attaccando aspetti fondamentali dell’umanità altrui. Disgusto, come dimensione fondativa e essenziale del tweet o del post discriminatorio. “Un’avversione profonda – direbbe la filosofa Martha Nussbaum in Disgusto e umanità (2010, p. 85) – simile a quella ispirata dagli escrementi, dagli insetti viscidi e dal cibo avariato”. In questo caso, però, lo scopo del disgusto non sarebbe quello di preservare l’individuo da un rischio alimentare o dal contatto con i batteri, come saggiamente osservava Charles Darwin (1872), ma di offrire una vera e propria difesa psichica che si esprime attaccando aspetti fondamentali dell’umanità altrui.
L’insulto non deforma semplicemente la parte del corpo coinvolta; è necessario disprezzarne i confini con l’idea della contaminazione e della sporcizia. “Frocio di merda”, “negro di merda”, “ebreo di merda”, “handicappato di merda”, “troia di merda”, una ripetizione quasi ossessiva del termine escrementizio che non si limita a reinterpretare l’altro manipolando segni e parole. È in atto un processo di disumanizzazione che, nell’attaccare l’altro, lo rende abietto. In diversi momenti storici, del resto, la “politica del disgusto” ha condizionato la vita delle donne, dei neri, degli ebrei, dei “non occidentali”, dei fuori casta in India e delle minoranze in generale: una politica che mina alla base il principio dell’eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge e che va perciò sistematicamente smascherata. Gran parte della retorica politica e giuridica alla base della negazione di diritti ai gay e alle lesbiche, per esempio, si basa sul linguaggio del disgusto. Le attività omosessuali vengono infatti spesso descritte da alcuni politici quali “turpi e rivoltanti” in grado di “contaminare e corrompere la società”. Il disgusto viene così “proiettato” su un gruppo di individui che vengono di conseguenza stigmatizzati, considerati inferiori e privati di diritti.
L’assenza di interazioni fisiche, di contatto visivo, di condivisione delle espressioni facciali, del tono della voce, delle posizioni assunte dal corpo, permette all’utente di presentarsi attraverso “identità” fluide, multiple, che possono coprire uno spettro di (ir)realtà che va dalla ricerca di una più libera espressione di sé fino a una rappresentazione di sé artefatta e manipolata (pensiamo alla scelta del nickname, all’assunzione di nomi di fantasia, all’invenzione di avatar, ecc). In questi mondi immaginari multimediali – in cui le persone possono giocare con la propria identità, dilatare o ridurre i tempi, abbattere le barriere spaziali e “raggiungere” velocemente l’altro – l’esperienza diventa surreale, si crea uno stato di coscienza sospeso che può facilitare l’espressione legittimata, o dissociata), dei propri stati mentali.[1] I filtri e le (auto)censure cadono, le mediazioni si annullano e la comunicazione si fa più “agita”. Le parole possono diventare “acting out”. Questa “alterazione” in contemporanea della realtà e dell’identità, oltre a esercitare fascino e creare forme di dipendenza, può in parte spiegare perché l’intolleranza e la violenza possono essere scritte e agite anziché pensate e elaborate. Questo riguarda tutte le popolazioni online, pur nelle diversità dei loro profili culturali, sociali, anagrafici.
Secondo il 51° Rapporto sulla situazione sociale del Paese (2017), circa la metà degli italiani usa i due social network più popolari: Facebook (56,2%) e YouTube (49,6%), mentre il 13.6% utilizza Twitter. Dal Rapporto emerge anche che, parallelamente alla diffusione su larga scala dei device mobili, e alla conseguente possibilità maggiore di avere accesso ai social network con maggiore frequenza, negli ultimi anni i comportamenti degli adulti di età compresa tra i 30 e i 44 anni sono diventati sempre più simili a quelli degli under 30. Questi dati sono in linea con la ricerca condotta da We Are Social e Hootsuite durante il 2016, secondo i quali il numero di italiani connessi a Internet è salito al 73.7%, crescendo del 4% rispetto all’anno precedente (si tratterebbe di circa 39 milioni di persone), utilizzando sempre più i propri smartphone, mentre l’utilizzo dei social media è aumentato dell’11% – percentuale che sale a 17 se ci si focalizza sugli utenti che accedono a queste piattaforme da dispositivi mobile. Da queste rilevazioni emergerebbe anche che l’Italia è il terzo paese al mondo per accesso a Internet da dispositivi, con l’85% della popolazione che ne fa uso. Inoltre, il 52% degli utenti italiani accede mensilmente a piattaforme social, rispetto a una media globale del 37%.
Il progetto Hate Map 3.0
La correlazione tra linguaggio dell’odio (hate speech) e episodi di violenza (hate crimes) mostra come i social media possano diventare una corsia preferenziale di incitamento all’intolleranza e al disprezzo nei confronti di gruppi minoritari o socialmente più deboli (per esempio le donne o i migranti). Il numero esiguo di caratteri che compone un tweet consente (o addirittura favorisce) la diffusione e la condivisione di pensieri e atteggiamenti idiosincratici, a maggior ragione se “garantiti” dall’anonimato. Il risultato è comunque l’elisione di forme di pensiero più articolate e l’estremizzazione verso il negativo. Mentre, infatti, la “concretezza” del mondo “reale” ci tiene in contatto più facilmente con “i confini del nostro senso di contenimento”, quando tali confini si fanno più “virtuali” le idee o le credenze vengono espresse con modalità più assolute, di idealizzazione o, più frequentemente, di svalutazione o denigrazione.
Per il terzo anno consecutivo, Vox – Osservatorio italiano sui diritti, in collaborazione con la cattedra di “Psicopatologia: Valutazione clinica e diagnosi” del Dipartimento di Psicologia Dinamica e Clinica della Sapienza Università di Roma, l’Università degli Studi di Bari Aldo Moro e l’Università degli Studi di Milano ha elaborato la “Mappa dell’Intolleranza”. Si tratta di un progetto che, realizzato sul modello della Hate Map della Humboldt State University della California, ha l’obiettivo di identificare, attraverso la mappatura di tweet discriminatori, le regioni italiane dove l’intolleranza nei confronti di donne, omosessuali, ebrei, diversamente abili, migranti e musulmani è maggiormente diffusa. I tweet sono stati rilevati tra novembre 2016 e agosto 2017 e tra marzo e maggio 2018 considerando 76 termini sensibili ai 6 gruppi potenzialmente oggetto di intolleranza. I termini sensibili sono stati individuati a partire quelli che nella rilevazione 2013-2014 sono risultati i più frequenti; per assicurare che i termini comprendessero un’ampia gamma di varietà linguistiche effettivamente ricorrenti nel parlato quotidiano sono stati consultati anche quotidiani che riportavano articoli inerenti uno o più gruppi oggetto di intolleranza. Infine, è stata diffusa a livello nazionale una survey on-line su piattaforma Unipark.de mediante pubblicizzazione su siti internet, contatti diretti e inserzioni su bacheche universitarie. Ai partecipanti è stato chiesto di indicare 5 termini negativi che rivolgerebbero a ognuno dei 6 gruppi di persone. Sebbene non sia possibile calcolare un preciso tasso di risposta, delle 1358 persone che hanno avuto accesso alla survey on-line, 935 (69%) hanno completato il questionario. Quanto più “caldo”, cioè vicino al rosso, è il colore della mappa termografica rilevata, tanto più alto è il livello di intolleranza rispetto a una particolare dimensione in quella zona. Aree prive di intensità termografiche non indicano assenza di tweet discriminatori, ma luoghi che mostrano una percentuale più bassa di tweet negativi rispetto alla media nazionale.
Perché Twitter? Sebbene tra i social network non sia quello maggiormente utilizzato per la condivisione di stati personali (primeggiano Facebook e Google+), il fatto che Twitter permetta di re-tweettare dà l’idea di una comunità virtuale continuamente in relazione e l’hashtag offre una buona sintesi del sentimento provato dall’utente. Per esempio, uno studio di Blogmeter ha registrato nel 2013 un aumento del 7% del numero dei tweet e un + 3% di utenti che si fanno geolocalizzare dichiarando la propria posizione rispetto al 2012. Twitter permette anche di avere libero accesso a tutti i contenuti postati, ovviando al fatto che l’utente autorizzi l’estrazione e l’accesso all’intero flusso dei contenuti. Infine, offre il vantaggio di definire il topic della discussione in modo informale sulla base dei termini utilizzati nei post e di veicolarla esclusivamente attraverso l’hashtag e non “pagine fan” e “gruppi”, che in un certo senso potrebbero rappresentare dei filtri all’espressione e alla diffusione non controllata di contenuti intolleranti (per esempio, su Facebook pagine e gruppi intolleranti vengono individuati e chiusi molto rapidamente proprio in virtù della semplicità di ritrovamento).
Distribuzione dei tweet
La distribuzione 2016-2017 dei tweet evidenzia che, tra i 6 gruppi target, il numero maggiore di tweet è riferito agli islamici (4.754.354 tweet), sebbene il maggior numero di tweet negativi sia rivolto alle donne (743.121, 59,6% del totale dei tweet negativi). In termini di tweet totali negativi, i migranti sono il secondo gruppo colpito (73.390 tweet, 13,5% del totale dei tweet negativi), seguono gli islamici (11,8% del totale dei tweet negativi), i disabili (8,3% del totale dei tweet negativi), gli omosessuali (4,0% del totale dei tweet negativi) e, infine, gli ebrei (2,8% del totale dei tweet negativi). È opportuno sottolineare che le variazioni di frequenza tra gli anni 2015-2016 e 2016-2017 possono essere influenzate da numerosi fattori, tra cui per esempio la rilevanza mediatica e sociale di un determinato tema nel momento in cui è avvenuta la rilevazione dei tweet. Certamente, però, queste variazioni non possono essere lette attendibilmente come variazioni della psicologia del twittatore. Una lettura psicologica dell’hate speech rilevato su Twitter, infatti, può coglierne le valenze psicologiche – pensiamo, in particolare, alle cyberpathologies e al modello del minority stress, oppure a fenomeni accostabili a un corto circuito simbolico dell’aggressività o all’evacuazione psichica di contenuti mentali inaccettabili – ma non può produrre letture di trend, che per definizione, si prestano meglio a una lettura sociologica.
In questo senso, leggere i dati alla luce del modello del Minority Stress, definito come “l’insieme dei disagi psicologici a cui sono sottoposte le persone appartenenti a minoranze, siano esse sociali, culturali e/o sessuali” (Lingiardi, 2016; Meyer, 1995, 2003), può essere utile per comprendere la relazione tra stigmatizzazione e salute mentale. Il minority stress si compone di tre dimensioni che si intrecciano e potenziano vicendevolmente: a) esperienze vissute di discriminazione e violenza; b) stigma percepito; c) stigma interiorizzato, ossia l’insieme di sentimenti e atteggiamenti negativi (dal disagio al disprezzo) che una persona può provare (più o meno consapevolmente) nei confronti del proprio status di persona appartenente a una o più minoranze. Nel caso in cui una persona appartenga a più minoranze – è il caso, per esempio, di un uomo omosessuale di colore, si parla di “multi minority stress”. L’intreccio delle tre dimensioni del minority stress può comportare importanti ricadute in termini di benessere psicologico, per esempio una riduzione dei livelli di autostima, un aumento dei vissuti ansiosi, depressivi e del rischio suicidario (Lingiardi, 2016; Meyer, 1995, 2003).
Dati di ricerca sull’intolleranza verso i 6 gruppi target
Donne
Lo studio condotto nel 2014 dall’Istat in collaborazione con il Dipartimento per le Pari Opportunità ha stimato che 6.788.000 donne italiane sono vittime di violenza fisica e sessuale nel corso della vita, il 31.5% ha tra i 16 e i 70 anni.[1] Il 20.2% ha riportato di aver subito violenza fisica, il 21% violenza sessuale, il 5.4% stupri e tentati stupri. Secondo i dati Istat, per le donne straniere (31.3%) il rischio di violenza fisica o sessuale nel corso della vita è simile a quello delle donne italiane (31.5%); tuttavia, nel primo caso la violenza più frequente è quella fisica (25.7% per le straniere vs. 19.6% per le italiane), nel secondo caso è quella sessuale (16.2% per le straniere vs. 21.5% per le italiane). A commettere le violenze più gravi sarebbero i partner attuali o passati. Va anche segnalato che, rispetto all’indagine precedente condotta nel 2006, negli ultimi 5 anni le violenze fisiche o sessuali sono passate dal 13.3% all’11.3%. Un’implicazione importante della violenza contro le donne coinvolge i casi di violenza assistita, ossia quella forma di violenza domestica che consiste nel sottoporre un minore a violenza verbale, fisica, sessuale di un genitore sull’altro e/o su persone a cui vuole bene e che porta il minore esposto a sviluppare stress, depressione, difficoltà scolastiche, ridotte capacità empatiche, bassa autostima, svalutazione di sé. Secondo la rilevazione Eurostat, nel 2016 in Italia le donne vittime di omicidio volontario sono state 149 (lo 0,48 per 100.000 donne). Di queste, il 39.6% sarebbe stato ucciso dal partner, l’11.4% dall’ex partner e il 14.1% da un autore sconosciuto alla vittima (si veda tabella successiva).[2]
Da novembre 2014 Twitter collabora con l’associazione no profit americana WAM! (Women, Action & the Media) a un sistema di segnalazione contro le molestie alle donne che avvengono sul network. Il progetto, ancora in fase pilota, consiste in un modulo online in cui gli utenti di Twitter (chiunque, non solo le dirette interessate) possono segnalare i tweet incriminati e gli account da cui arrivano le minacce. Le segnalazioni saranno utilizzate per intervenire nel flusso dei messaggi offensivi con prontezza ed efficacia ma anche per studiare come le minacce che avvengono sul social network si incrociano con i fenomeni di razzismo, omofobia e molestie sessuali.[3] Secondo uno studio del Pew Research Center, infatti, il 25% delle donne è stato molestato online e il 26% di esse ha subito stalking online.[4]
LGBT
A differenza di quelle contro le donne, le aggressioni verbali e fisiche contro le persone omosessuali o transessuali sono identificate esplicitamente come discorsi di odio e crimini di odio. Per il 62% degli esperti, operatori sociali, membri della polizia e di gruppi di attivisti per i diritti umani, dei diversi Paesi UE intervistati nel 2016 dall’European Union Agency for Fundamental Rights, l’orientamento sessuale e/o l’identità di genere è il secondo motivo di aggressione – verbale o fisica per gravità, dopo il razzismo e la xenofobia.[5] Come nel caso della violenza contro le donne, non sempre queste aggressioni vengono denunciate; al contrario, ciò avviene solo in piccola parte. Particolarmente vulnerabili alle aggressioni violente, fino all’omicidio, sembrano essere in Italia le persone transessuali. Secondo il Trans Murder Monitoring Project, un progetto di Transgender Europe, che collabora con l’OSCE/ODIHR nella raccolta dei dati, tra il 2006 e il 2016 ci sarebbero stati 30 omicidi di transessuali in Italia, a fronte di 8 in Gran Bretagna e Spagna, 5 in Francia. Solo la Turchia, con 43 omicidi, supera l’Italia (Transrespect 2017).[6] Rispetto agli altri Stati europei, secondo l’ultimo report dell’ILGA (International Lesbian, Gay, Bisexual, Trans and Intersex Association) rilasciato a maggio 2017, l’Italia ha ottenuto un punteggio pari al 27% in tema di protezione e diritti delle persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender (nel 2016 era pari al 20%), posizionandosi al 32° posto sui 49 Stati europei totali presi in considerazione.
Islamofobia
Dei 5 milioni di stranieri residenti in Italia, 1.600.000 sono musulmani. Sebbene non ci sia una definizione condivisa a causa delle connotazioni culturali, religiose e politiche del termine, l’“islamofobia” rientra nel più ampio concetto di discriminazione razziale. Nel 2015, il Contact Center dell’Ufficio Nazionale Antidiscriminazione Razziali (UNAR) ha ricevuto 28 segnalazioni di discriminazioni subite a causa di motivi religiosi, 3 casi riguardavano discriminazioni avvenute on-line. Secondo uno studio del 2015, le opinioni negative verso i musulmani sarebbero circa il doppio di quelle positive.[7] Uno studio sulle discriminazioni condotto nel 2015 dall’Eurobarometer ha rilevato che il 39% degli italiani non si sentirebbe a proprio agio a lavorare con una persona musulmana. Questa percentuale è la più elevata tra quelle di altri gruppi religiosi. Inoltre, il 41% ha riferito che non vorrebbe che i suoi figli avessero una relazione con una persona musulmana.[8] Un dato importante che emerge dalle statistiche riguarda l’associazione esistente tra atteggiamenti negativi verso i musulmani e la percezione di un rischio di insicurezza maggiore.
Dalla sua istituzione nel 2010 al 30 aprile 2017 l’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (OSCAD) del Ministero dell’Interno ha ricevuto un totale di 1936 segnalazioni, di cui 222 (11. 5%) relative al credo religioso che si poneva così, come la terza causa di (potenziale) discriminazione dopo la “razza” e l’etnia (998 segnalazioni, 51.5%) e l’orientamento sessuale (327 segnalazioni, 16.9%). Tuttavia, se da questi dati più generali si passa ad esaminare quelli relativi ai reati di matrice discriminatoria ed ai reati di matrice discriminatoria concernenti il web, il credo religioso si colloca al secondo posto (dopo la “razza” e l’etnia) tra i fattori di discriminazione, a testimonianza di una forte coincidenza tra segnalazioni all’Osservatorio e individuazione di una specifica fattispecie di reato. Sono, infatti, 178 su 945 totali (18.8%) i reati religiosamente motivati del primo tipo, mentre sono 31 su 517 (6.1%) quelli del secondo. Anche per gli ultimi due anni censiti, il 2015 e il 2016, l’OSCAD segnala il permanere di una forte criticità sul versante delle discriminazioni e dell’odio religiosamente motivati, con ben 21 casi di reati di matrice discriminatoria nel 2015 e 16 nel 2016 (10.9% e 14.8%, rispettivamente) e 7 reati di matrice discriminatoria concernenti il web del 2015 (63%) (OSCAD 2017).[9] A livello di Unione europea il Rapporto Code of Conduct on countering illegal hate speech online: One year after del giugno 2017 ha messo in luce che, delle 2575 segnalazioni inviate a Facebook, Twitter e YouTube, la maggior parte riguarda proprio gli ambiti in cui è in gioco (anche) la tutela della dimensione religiosa della personalità umana. Infatti, il 17.8% delle segnalazioni ha riguardato episodi di xenofobia, in particolare contro i migranti; il 17.7% sono stati casi specifici di islamofobia, mentre l’8.7% di antisemitismo e il 4,5% casi di odio religioso tout court.[10]
Xenofobia
Uno studio presentato il 18 febbraio 2013 alla Camera e promosso dalla Conferenza delle Assemblee delle Regioni ha rilevato che il 45% dei giovani tra i 18 e i 29 anni si definisce xenofobo o diffida degli stranieri; la fascia di popolazione meno xenofoba è quella femminile, tra i 25 e i 29 anni, residenti nelle Isole, al Sud e Centro Italia. Un altro dato interessante dello studio riguarda il web-racism: in Facebook, sono più di 350 i gruppi dichiaratamente anti-immigrati, con alcuni che arrivano anche a 5000-7000 iscritti; oltre 400, invece, i gruppi antirazzisti, con punte fino a 10.000 iscritti. Sono circa 100 i gruppi “anti-musulmani”, oltre 400 i gruppi “anti-terroni” e più di 300 quelli contro gli zingari. Provando a censire le diverse tipologie di razzismo rintracciabili in rete, è possibile costruire una griglia con almeno 8 forme differenti di razzismo: biologico, basato sulla razza; di matrice culturale verso i gruppi etnici, centrato sulla difesa del sangue, della terra, delle tradizioni; ostentativo, con la tendenza all’espressione razzista come bisogno di potenza, come esibizione di atteggiamenti aggressivi; quotidiano, con una pulsione che tende a generalizzare i fatti di cronaca; estetico, secondo cui “gli altri sono brutti, sporchi ecc.”; imperiale, “gli altri non sono civilizzati”, compresi gli italiani del Sud; ansiogeno, nutrito dalla rabbia e dalla considerazione dell’altro come capro espiatorio; differenzialista, nutrito dal bisogno di difendersi contro tutte le “contaminazioni” che snaturano la qualità e l’originalità dell’identità.[11]
Nel Relazione redatta a luglio 2017 dalla “Commissione ‘Jo Cox’ sull’intolleranza, la xenofobia, il razzismo e i fenomeni di odio” emerge che circa 2 cittadini su 10 ritengono che sia “meglio che italiani e immigrati stiano ognuno per conto proprio”, oppure che “l’Italia è degli italiani e non c’è posto per gli immigrati”. La chiusura al confronto multiculturale trova terreno fertile nella persistenza dello stereotipo dell’immigrato come causa di degrado o ancora peggio di terrorismo e criminalità. Secondo la maggioranza degli intervistati (56.4%) “un quartiere si degrada quando ci sono molti immigrati” e “l’aumento degli immigrati favorisce il diffondersi del terrorismo e della criminalità” (52.6%). I problemi che, in generale, gli intervistati ritengono causati dagli immigrati sono: nell’ordine le attività illegali/criminalità (72.3%), i problemi di ordine pubblico e la violenza (48.4%). Le tre nazionalità segnalate più frequentemente come causa di problemi sono la rumena, l’albanese e la marocchina. In questo senso, può essere interessante evidenziare il grado di minore o minore prossimità con alcune minoranze etniche. Coerente con le nazionalità indicate come maggiormente problematiche è la graduatoria delle nazionalità meno gradite nell’ambito del vicinato. Gli immigrati che non si vorrebbe avere come vicini sono, nell’ordine. i rumeni (25.6%), albanesi (24.8%), marocchini (19.2%), cinesi (18.7%), nigeriani (18.6%) e immigrati in generale (16.2%). Varia tra il 37% e il 40% la quota di quanti subordinano l’accettazione di vicini immigrati al comportamento che adottano. Un caso a parte è quello dei rom/sinti. Nonostante siano molto spesso di nazionalità italiana da molte generazioni, essi sono percepiti come i più stranieri/estranei di tutti. Non vorrebbe averli come vicini di casa il 68.4% degli intervistati e solo il 22.6% li accetterebbe se si comportassero in modo ritenuto adeguato.
Secondo un sondaggio condotto dal Pew Research Center (2016), tra i Paesi europei l’Italia è al quinto posto nel credere che i rifugiati aumentino la probabilità di terrorismo ed al primo nel considerare i rifugiati più responsabili di crimini rispetto ad altri gruppi. Il 65% degli italiani (contro il 21% dei tedeschi) pensa che i rifugiati siano un peso perché godono dei benefits sociali e del lavoro degli abitanti, mentre il 59% in Germania pensa che rendano il Paese più forte con il lavoro e i loro talenti (solo il 31% in Italia).[12] Nello stesso rapporto risulta anche come l’82% del campione di intervistati in Italia esprima un’opinione negativa rispetto ai rom. Si tratta del valore più alto tra i Paesi analizzati dal rapporto. Le differenze tra gli Stati europei non dipendono da fattori demografici (la grandezza della minoranza rom nel Paese), ma dalle politiche di inclusione adottate, nonché dalla possibilità di contatto interpersonale e di amicizia fra rom e gagi (politiche di de-segregazione). Dai dati elaborati è emerso, infatti, come il numero di frasi d’odio rivolte nei confronti delle comunità rom e sinte sia registrato nelle aree dove prevalgono politiche di segregazione e di marginalizzazione.
Un sondaggio condotto da Demos ha, inoltre, evidenziato che nel mese di aprile 2016, in Italia, l’indice di preoccupazione verso gli immigrati è stato pari al 41%, il più elevato dal 2010.[13] A questo riguardo, il capitolo sui dati ISTAT (2017) evidenzia come la persistenza dello stereotipo dell’immigrato come causa di degrado o di terrorismo e criminalità. Secondo la maggioranza della popolazione (56,4%) “un quartiere si degrada quando ci sono molti immigrati” e “l’aumento degli immigrati favorisce il diffondersi del terrorismo e della criminalità” (52.6%). I problemi che, in generale, gli italiani ritengono causati dagli immigrati sono: nell’ordine le attività illegali/criminalità (72.3%), i problemi di ordine pubblico e la violenza (48.4%). Le tre nazionalità segnalate più frequentemente come causa di problemi sono la rumena, l’albanese e la marocchina. Nello stesso tempo, a confermare lo slittamento della percezione negativa dall’immigrato al musulmano, l’Istat segnala come circa il 40% della popolazione italiana ritenga “le pratiche religiose di alcuni immigrati (minacciose per) il nostro modo di vivere”.[14]
Antisemitismo
Alla vigilia del 75° anniversario della Notte dei cristalli l’European Union Agency for Fundamental Rights ha presentato i risultati dell’ultima ricerca sulla diffusione dell’antisemitismo nell’Unione europea “Discriminazione e crimine d’odio contro gli ebrei negli stati membri dell’Ue: esperienze e percezioni dell’antisemitismo”.[15] Lo studio si basa sulla percezione del fenomeno emersa dalle interviste a circa 6000 persone ebree di otto paesi in cui risiede il 90% degli ebrei europei: Belgio, Germania, Francia, Ungheria, Italia, Lettonia, Svezia e Regno Unito. Il 66% ha rivelato che l’antisemitismo è un problema grave nel paese in cui vivono, e per 3 persone su 4 la situazione è peggiorata negli ultimi cinque anni. “L’antisemitismo è un esempio inquietante di come un pregiudizio possa persistere nei secoli, e non ha spazio nella nostra società. È particolarmente desolante vedere che Internet, un mezzo che dovrebbe essere di comunicazione e dialogo, è usato come strumento di vessazioni antisemite”, ha spiegato il direttore dell’agenzia nell’introduzione al rapporto, con cui si chiedono “misure mirate” per combattere il fenomeno. Dai risultati di un’indagine condotta dal Pew Research Center, gli italiani emergono come tra i più antisemiti d’Europa (il 21% della popolazione non vede di buon occhio i concittadini ebrei). Queste percentuali, trasformate in numeri, raggiungono cifre altissime, come per esempio i sei italiani su dieci che mostrano un atteggiamento negativo anche verso i musulmani.[16]
Disabilità
I dati sulla discriminazione in base alla disabilità sono pochi e poco aggiornati e soprattutto non consentono aggregazioni o comparazioni a livello internazionale, dal momento che si basano su indicatori e metodologie di analisi diverse. La stessa definizione di disabilità è stata per molto tempo basata prevalentemente sull’aspetto medico. Negli ultimi anni si sta affermando, invece, un paradigma della disabilità che non è più soltanto di carattere sanitario, ma anche sociale: in altri termini, la disabilità tende ad essere sempre più identificata non soltanto dal punto di vista medico-sanitario, ma anche da quello delle barriere, ambientali e sociali, che ostacolano l’inclusione e l’appartenenza sociali. Nel 2013, l’ Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali (UNAR) ha rilevato che la disabilità assume un ruolo significativo tra i fattori discriminanti nell’ambiente di lavoro: solo il 6% dei disabili che ha partecipato a concorsi o a colloqui di lavoro è riuscito a ottenere un impiego.
Riflessioni conclusive: limiti e sviluppi futuri
La “Mappa dell’intolleranza” può essere uno strumento utile per riflettere sull’indicibile quando questo viene pronunciato e, potenzialmente, agito. Del resto, da novembre 2014, Twitter ha iniziato a collaborare con l’associazione no profit americana WAM! (Women, Action & the Media) a un sistema di segnalazione delle molestie sul network. Lo scopo è ridurre la quantità dei tweet che contengono minacce di violenza, doxxing (pubblicare informazioni personali altrui a scopo intimidatorio), insulti razzisti, omofobi o sessisti.
La strategia di rilevazione in questa terza edizione è stata ulteriormente perfezionata (per esempio, il numero totale dei tweet non risente della frequenza con cui si twitta in una determinata regione). Rimangono tuttavia alcuni punti da approfondire. Primo, la distribuzione geografica uniforme dei 6 cluster potrebbe rappresentare un limite intrinseco all’utilizzo di Twitter che, in quanto strumento intellettualizzato di esprimere sentimenti negativi di intolleranza, potrebbe non rispecchiare completamente le aggressioni messe in atto per strada. Secondo, sarebbe interessante analizzare in che modo si distribuirebbero i tweet discriminatori se si analizzassero congiuntamente due cluster differenti: per esempio, vi è una differenza significativa tra i tweet contro gli uomini ebrei e i tweet contro le donne ebree? Un’analisi di questo tipo richiede probabilmente una sub-clusterizzazione di ogni minoranza presa in esame per cogliere quali aspetti di ciascuna di esse correla maggiormente o si associa con l’insulto discriminatorio. Terzo, nonostante la modalità di selezione si sia servita di differenti forme d’informazione (analisi del lessico ricorrente sui quotidiani, survey on-line, contatti diretti) la scelta dei 76 termini sensibili può non aver incluso tutte le espressioni a cui comunemente si ricorre per insultare gruppi minoritari. Tuttavia, l’individuazione delle co-occorrenze compensa in parte questo limite.
Infine, sarebbe interessante approfondire quest’analisi termografica dell’intolleranza italiana cogliendo non soltanto l’occorrenza dei singoli tweet offensivi, ma anche la frequenza con cui un singolo utente utilizza uno specifico tweet discriminatorio per ottenere indicazioni su possibili differenze demografiche e pratiche socio-culturali e progettare interventi ad hoc rivolti a specifiche fasce d’età. È interessante a questo proposito la discussione intrattenuta nel 2015 da Michele Serra con un lettore de Il Venerdì di Repubblica. Un ampliamento futuro di questo progetto potrà prevedere un’analisi più approfondita delle dinamiche legate al ricorso al re-tweet, e quindi all’atto della condivisione di un pensiero twettato da qualcun altro, e la possibilità di individuare una correlazione, per esempio, tra orientamento politico e senso di religiosità con una maggiore o minore produzione di tweet discriminatori. Indicandoci la “temperatura” del sentimento discriminatorio, le mappe termografiche ci pongono un quesito: esiste un rapporto tra la realtà politica e sociale del territorio e quella virtuale e volatile dei tweet?
Riferimenti bibliografici
Darwin, C. (1872). L’espressione delle emozioni. Tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1999.
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