Sappiamo molto, oggi, delle vie di diffusione dell’odio online.
Lo sappiamo da molto tempo, noi che abbiamo costruito la Mappa dell’Intolleranza: da sette anni, da che abbiamo iniziato la nostra rilevazione, tra i primi in Europa a mappare lo hate speech online.
Sappiamo, da un recente rapporto pubblicato dalla Commissione Europea, che i social network sono assai meno efficaci che in passato nel bloccare la diffusione e la viralizzazione dell’odio. Nel 2022 solo il 64,4% delle segnalazioni complessive sarebbero state gestite in 24 ore, contro l’81% dello scorso anno. La maglia nera spetta a Twitter, in grado di rimuovere soltanto il 45,4% dei contenuti d’odio e di gestire solo il 49,8% delle segnalazioni nelle 24 ore dalla ricezione. Del resto, le recenti intemerate del nuovo padrone di Twitter, Elon Musk, non fanno ben sperare.
Conosciamo la pervasività dell’odio online. Ne abbiamo analizzato gli algoritmi, che favoriscono la creazione delle ormai note echo chambers, quelle camere di scompensazione dove odiatori arrabbiati, fanatici oltranzisti e ingenui, stolti fruitori in cerca del loro quarto d’ora di notorietà, rafforzano e diffondono le loro credenze e i loro pregiudizi.
Sappiamo, dalle parole di Shoshana Zuboff, docente alla Business School di Harvard, che il successo di Facebook deriva “da operazioni architettate da dietro uno specchio unidirezionale per tenerci nell’ignoranza e avvolti in una nebbia di diversivi, eufemismi, menzogne”.
Parla di Facebook, ma il panorama degli altri social non differisce di molto.
Eppure.
Eppure, l’odio via social non scema. Come dimostrano i dati raccolti dalla Mappa dell’Intolleranza 7. Diminuisce, è vero, il numero totale di tweet. Ma aumenta in modo esponenziale quello di tweet negativi. Segno di un fenomeno ormai in via di definitiva radicalizzazione. E quindi più difficile da arginare. In assoluto, rispetto alla rilevazione dello scorso anno, tutte e sei le categorie prese in esame (donne, ebrei, persone omosessuali, persone con disabilità, migranti, musulmani) presentano un numero di tweet negativi sul totale altissimo, spesso vicino al 90% e oltre. Che vuol dire? Che quando si twitta su queste categorie, usando frasi o lemmi che indicano intolleranza e presenza di stereotipi negativi, non lo si fa per difendere le stesse categorie, ma per attaccarle. Ma c’è un altro dato della rilevazione di quest’anno che fa riflettere. Rispetto agli anni passati, le tre categorie più prese di mira sono le donne, le persone con disabilità e le persone omosessuali. Siamo dunque di fronte a uno spostamento da bias improntati alle categorie del razzismo (che colpiscono soprattutto migranti, musulmani ed ebrei) verso una forte insofferenza per i diritti della persona, rappresentati qui da soggetti considerati marginali e fragili e che, rivendicando i propri diritti e la propria legittima aspirazione a una vita piena, vengono bullizzati e brutalizzati per “ricacciarli” nei loro ruoli di subalternità/ invisibilità. Lo dimostra, purtroppo da anni, la fortissima concentrazione di odio nei confronti delle donne, categoria che, da che abbiamo iniziato la nostra mappatura, è la più odiata in assoluto, presa di mira con frusti stereotipi legati al corpo, ma anche con attacchi diretti all’indipendenza e all’autonomia delle donne che lavorano. Appunto. È intollerabile che una categoria di “vittime” alzi la testa. Per questo vanno colpite, financo uccise. Da sempre le maggioranze, silenziose o rumorose, hanno avuto bisogno di confermare se stesse attraverso un capro espiatorio. Lo scelgono tra le cose che non capiscono e inconsciamente temono e considerano “deboli”: di volta in volta le donne, le persone non eterosessuali, disabili, o di culture, religioni ed etnie non maggioritarie. Dalle ricerche sappiamo che alcune caratteristiche di personalità (sessismo, chiusura cognitiva, rigida adesione a ruoli di genere tradizionali) possono avere peso, ma non esauriscono la variabilità dei cosiddetti haters. Perché è l’incrocio perverso tra ansie e paure del futuro, motivazioni politiche e sociali che mirano a creare caos, e la cosiddetta variabile social ad aver prodotto il cortocircuito che lo hate speech rappresenta. Seconda considerazione. Sempre più inquietante. C’è una correlazione tra discorsi e crimini di odio. 120 donne uccise nel 2022. Quando? Per saperlo, basta guardare la curva dei picchi di odio su Twitter, rilevati dalla Mappa n.7, che somiglia da vicino all’elettrocardiogramma di un infartuato, con quelle sue punte aguzze che indicano, invariabilmente, lo scatenarsi della violenza. O assistere agli episodi di bullismo che colpiscono le persone con disabilità, anche questi puntualmente registrati dai picchi su Twitter. E se è vero che l’aumento esponenziale dell’odio verso questo gruppo di persone è segno anche di uno spostamento semantico, di un uso del linguaggio che implica lo scagliare parole condite con stereotipi e ignoranza, anche contro categorie che non appartengono al gruppo preso in esame, è pur vero che il numero di atti di bullismo contro le persone con disabilità, soprattutto tra i più giovani, è in crescita. Come dire, lo sciame si agita e fa sì che offese e parole sin qui stigmatizzate a livello sociale, vengano liberate, liberando al contempo la carica di violenza che può portare all’atto. Lo studio più noto a conferma della correlazione tra parole d’odio e crimini d’odio, risale a qualche anno fa ed è firmato da due ricercatori dell’università inglese di Warwick, Karsten Muller e Carlo Schwarz, che nel 2018 hanno evidenziato una forte correlazione tra i partiti di estrema destra, il sentimento anti migranti sui social in Germania e la diffusione di crimini violenti contro gli immigrati. I ricercatori hanno lavorato sul profilo Facebook di Alternative fur Deutschland (AFD), partito di estrema destra, e hanno comparato i contenuti del profilo con gli episodi di violenza contro i migranti, scoprendo che per ogni 4 post su Facebook che esprimevano forti sentimenti antimigranti, si verificava un’azione violenta contro gli stessi. Al termine dello studio, Muller e Schwarz hanno stimato che nel 2015 e nel 2016 i post anti migranti sul profilo Facebook della AFD abbiano contribuito ad aumentare del 13% il numero di attacchi violenti. E poi sappiamo. Come un grido di pasoliniana memoria, noi sappiamo che la responsabilità, molta, è dei social network e dell’uso manipolatorio che è stato fatto degli algoritmi che li governano, pensati per scatenare emozioni forti. Sappiamo che quegli stessi algoritmi favoriscono la diffusione di contenuti fortemente polarizzati (negativi o positivi). E che sono i contenuti fortemente polarizzati al negativo a essere premiati dagli algoritmi, perché scatenano una reazione più immeditata e producono quindi più like. In un bel libro inchiesta delle giornaliste americane Frenkel e Kang (Facebook, L’inchiesta finale) si dà conto di un esperimento segreto condotto da Facebook. Nel corso di una settimana nel 2012 i ricercatori alterarono ciò che circa 700mila utenti avrebbero visto accedendo alla piattaforma. Ad alcuni venivano mostrati contenuti esageratamente felici, ad altri tremendamente tristi. I risultati? Vedere post negativi spingeva gli utenti a esprimere atteggiamenti negativi nei loro stessi post. Mentre se gli utenti venivano a contatto con contenuti positivi, era probabile che a loro volta diffondessero post di segno positivo. La conclusione dei data scientist di Facebook? “Gli stati emotivi si possono trasferire agli altri per contagio, portando le persone a provare le stesse emozioni senza che se ne rendano conto”. Si chiama, appunto, manipolazione. E sappiamo, come dimostra la Mappa numero 7, che il cortocircuito media- social media genera una spirale perversa: leggete i dati della rilevazione effettuata con il contributo di GiULIA Giornaliste, che rendono evidente come profili di giornalisti e giornaliste e di testate particolarmente polarizzanti finiscono per attrarre haters e le loro shit storm. Anche se si limitano a fare il loro mestiere, come Angela Caponnetto, inviata per Rainews24, presa di mira perché fa bene il suo mestiere. Imperdonabile, per una donna. Ma quello che ancora non sappiamo è perché. Perché certe persone, non radicalizzate, non estremiste, non forsennate si lasciano andare a commenti e insulti inaccettabili e a credenze fruste e inquietanti. Certo, come ci spiega la psicologia sociale, esternare l’odio è un bisogno primitivo, non elaborato, riversato su gruppi che culturalmente rappresentano ciò che è considerato debole o inferiore. Si tratta, spiegano sempre gli psicologi, di persone dal funzionamento psichico basato su dinamiche binarie: dentro-fuori, buono-cattivo, bianco-nero, uomo-donna, etero-omo. Persone, incapaci di fronteggiarsi con un panorama che muta e che per questo fa paura. Ma c’è di più. È un meccanismo intrinseco all’era digitale, un’era segnata da ciò che studiosi come Henry Jenkins chiamano l’era della convergenza. In sintesi, è il meccanismo perverso della ricerca della ribalta facile: le piattaforme digitali, e i social in primis, consentendo a ciascuno di noi di produrre i nostri contenuti senza demandarli a media professionali, hanno liberato la profezia di Andy Warhol. In futuro, disse l’artista, tutti avranno diritto al loro quarto d’ora di celebrità. Solo che oggi più del quarto d’ora si pretendono lustri di notorietà. È la promessa facile, alla portata di tutti, di una vita dorata e di una fama a portata di clic e di like, chimera nefasta che illude e seduce i più ingenui e i più fragili e i più giovani. Ma qualcosa abbiamo imparato. Uno. Gli haters vanno denunciati. Bene ha fatto la pluri olimpionica di nuoto sincronizzato Linda Cerruti a denunciare i 12 haters che l’avevano molestata e che la polizia postale ha scovato. E ancora. A dicembre 2021, un gruppo di rifugiati Rohingya, la minoranza musulmana che viveva in Birmania, ha fatto causa a Facebook presso il tribunale di San Francisco, chiedendo un risarcimento di 200 miliardi di dollari. Secondo Save the Children, dall’agosto 2017, quando le persecuzioni si sono fatte più violente, sono stati oltre 730mila, su una popolazione di un milione di persone, i Rohingya fuggiti dalla Birmania. Il gruppo di rifugiati che ha promosso la class action sostiene che gli algoritmi di Facebook avrebbero amplificato i messaggi di odio e la diffusione di fake news riferiti alla minoranza. “Facebook”, scrivono i rifugiati “è stato disposto a scambiare le vite dei Rohingya per una migliore penetrazione del mercato in un piccolo Paese del sud- est asiatico”. Due. Per combattere lo hate speech, dobbiamo costruire storie belle. È ciò che si chiama contronarrazione. O narrazione alternativa. Noi di Vox Diritti da anni entriamo nelle scuole per insegnare ai ragazzi, molti vittime o attori di cyberbullismo, a fronteggiare l’odio. Come? Lavorando innanzitutto sullo spettro positivo delle emozioni e dunque costruendo racconti di sé e del mondo, basati su empatia e positività. Non è buonismo, è una pulsione vitale. Serve, anche, a preservare la nostra specie dall’autodistruzione. Perché le parole cattive non solo feriscono, annientano a volte. Come dimostrano diversi studi, che parlano di ansia, depressione, disturbi da uso di sostanze, ideazione suicidaria in persone vittime di microaggressioni, quali lo hate speech. Tre. C’è una parola che vale la pena ripetere come un mantra. È entrata di prepotenza nel nostro lessico nel corso della pandemia. Ma va accarezzata e mormorata, perché si porta appresso significati importanti. È cura. Spiega la filosofa Luigina Mortari: “Senza cura la vita non può fiorire. È essenziale, perché protegge la vita e coltiva la possibilità di esistere”. Come ogni essere umano sa, dalle sue prime esperienze nel mondo. “Una buona cura tiene l’essere immerso nel buono. Ed è questo buono a dare forma alla matrice generativa del nostro vivere”.
Contro le parole dell’odio, affidiamoci al potere curativo delle parole che abbracciano, che leniscono, che uniscono.