I risultati della settima edizione della Mappa dell’Intolleranza 2022 sono di estremo interesse anche dal punto di vista giuridico e del diritto costituzionale. Le prime vittime dell’odio on line sono ancora le donne, seguite – e questa è la novità più eclatante – dalle persone con disabilità e dalle persone omosessuali. Meno diffuso sembra essere il discorso d’odio rivolto a minoranze etniche e religiose. Questi dati impongono una riflessione sulle nozioni di hate speech, proposte in diversi documenti giuridici, a livello sovranazionale e interno. A seguito del secondo conflitto mondiale, le prime discipline in materia di hate speech sono state approvate con lo scopo di proteggere le minoranze etniche e religiose, alla luce delle gravi violazioni di diritti perpetrate durante i regimi totalitari. Così, a livello internazionale il Patto sui diritti civili e politici del 1966 vieta “qualsiasi appello all’odio nazionale, razziale o religioso”, la Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale del 1965 condanna “ogni propaganda ed organizzazione che s’ispiri a concetti ed a teorie basate sulla superiorità di una razza o di un gruppo di individui di un certo colore o di una certa origine etnica, o che pretendano di giustificare o di incoraggiare ogni forma di odio e di discriminazione razziale”. Anche documenti più recenti, come la raccomandazione 97/20 del Comitato dei ministri del Consiglio di Europa, definiscono il discorso d’odio solo in riferimento a espressioni che “diffondono, incitano, promuovono o giustificano l’odio razziale, la xenofobia, l’antisemitismo”, senza tenere in considerazione altre forme di intolleranza. Non solo, anche il Codice di condotta, siglato dalla Commissione europea nel 2016 con le principali piattaforme del web, come Facebook e Twitter, proprio al fine di limitare la diffusione dell’odio sui social, fa riferimento al solo razzismo e xenofobia. A livello europeo, sarà necessario osservare gli effetti del Digital service act, il regolamento europeo sui servizi digitali recentemente entrato in vigore, che, pur non definendo il discorso d’odio, avrà un ruolo predominante nel contrasto ai contenuti illeciti. Le definizioni di hate speech appena riportate sono recepite nell’ordinamento interno, nell’ambito del quale vengono in rilievo le disposizioni, originariamente introdotte dalla legge Mancino-Reale (l. 205 del 1993) e oggi codificate agli articoli 604 bis e 604 ter del Codice penale. Questi ultimi sanzionano penalmente “chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”. Alla luce dei risultati della Mappa dell’Intolleranza n. 7, è doveroso chiedersi se le nozioni normative di hate speech, appena brevemente elencate, siano ancora al passo con i tempi, visto che le minoranze etniche e religiose non sono più le uniche vittime dell’intolleranza. L’odio non sembra rivolto solo a gruppi minoritari, ma si alimenta in ragione di determinate caratteristiche della persona (e non di un gruppo), come il genere, la disabilità, l’orientamento sessuale. Proprio queste caratteristiche, alla base di “classici” fattori di discriminazione, non rientrano nell’ambito delle principali definizioni legislative di hate speech, rischiando di lasciar prive di tutela le persone oggi più a rischio. L’estensione della tutela dai discorsi e crimini d’odio fondanti sul genere, sulla disabilità e sull’orientamento sessuale è, come noto, uno degli obiettivi del disegno di legge Zan che, nonostante il fallimento nella scorsa legislatura, sarà ripresentato in Parlamento. Da un lato, l’estensione della tutela penale è giustificata alla luce dei dati che dimostrano come le donne, i disabili e le persone omossessuali siano i più colpiti dall’odio on line e trova fondamento nell’art. 3 della Costituzione che vieta ogni forma di discriminazione. Dall’altro, è importante ricordare come la previsione di norme penali che limitano la libera manifestazione del pensiero deve sempre costituire l’extrema ratio, intervenendo solo ove sia verificabile una connessione tra la parola e l’azione violenta. Tale connessione viene in rilievo, osservando i dati della Mappa dell’Intolleranza n. 7, con specifico riguardo ad alcune categorie, prima fra tutte quella delle donne. Anche nel 2022, i picchi di odio on line si sono registrati in concomitanza con i femminicidi. Morti annunciate, di cui il discorso d’odio rappresenta un drammatico campanello d’allarme. In altri casi, invece, la connessione tra le parole e la violenza non è così evidente, ma il linguaggio non fa altro che riflettere il contesto culturale e sociale. Anzitutto, in moltissimi casi le parole estratte sono veicolo di stereotipi sessisti sul ruolo femminile, ancora considerato subordinato all’uomo nella famiglia e nella società. Ne sono una dimostrazione le parole d’odio contro le professioniste, capaci di scatenare l’intolleranza del web, proprio perché non esclusivamente dedite alle funzioni domestiche. Più le donne si emancipano raggiungendo ruoli di responsabilità, più l’intolleranza verso queste ultime aumenta. Tutto ciò si verifica nel momento storico in cui, in Italia, è stata nominata la prima donna Presidente del Consiglio che però ha scelto – e ciò meriterebbe una riflessione a parte – di farsi chiamare: il Presidente. Osservando altre categorie target, è il clima sociale e politico a influenzare il linguaggio social senza immediate ripercussioni violente. È il caso, ad esempio, delle parole d’odio contro i migranti, avvenute in concomitanza degli sbarchi sulle coste siciliane. Ancora, emerge, dai risultati della settima edizione, come il linguaggio discriminatorio fondato sulla disabilità non sia sempre sintomo di odio e violenze diretti contro le persone con disabilità, ma sia la dimostrazione del frequente utilizzo nel linguaggio comune di stereotipi sulla disabilità, rivolti ad altre categorie (es. politici “dementi”, medici “minorati”). Nelle situazioni descritte, dove non vi è un collegamento diretto tra linguaggio e azione, ma le parole sono espressione di stereotipi radicati nel tessuto sociale o sintomo di un clima culturale ostile al diverso, sanzioni e divieti risulterebbero meramente simbolici e, quindi, inefficaci. In questi casi è, invece, opportuno agire con altri strumenti: azioni di sensibilizzazione ed educazione che coinvolgano non solo il tema specifico dell’odio on line, ma anche l’educazione digitale e ai diritti, a partire dal principio di eguaglianza e della dignità dei singoli.