Il 5,2% delle famiglie italiane vive in condizioni di povertà assoluta (3,4 milioni di individui), in condizioni di povertà relativa l’11,1%. Eppure in Italia, la spesa pubblica per la non autosufficienza, tra anziani e adulti con disabilità, si attesta all’1,6% del PIL. Peccato che in Europa i dati siano ben diversi: si investe il 2.1% in politiche per la famiglia. “Dell’anomalia, anzi dell’emergenza” italiana per VOX parla Isabella Menichini, dirigente del Comune di Parma.
Il perimetro dei diritti sociali risulta oggi più che mai incerto. Il nostro sguardo vuole rivolgersi al sistema dei diritti sociali, riconosciuti dalla Costituzione, in coerenza con gli atti e le convenzioni internazionali ed europee, declinati da una serie di leggi nazionali, ma il cui esercizio è fortemente limitato dall’assenza di una disciplina che ne definisca precisamente confini, criteri di accesso, standard di riferimento, e soprattutto il sistema di finanziamento.
La nostra riflessione si concentrerà quindi sull’area del welfare “sociale” (per distinguerlo dalle politiche per la salute, per l’istruzione, o per il lavoro), che riguarda le politiche per la tutela e promozione dei diritti dei minori e delle loro famiglie, delle persone anziane, delle persone con disabilità o non autosufficienti, delle persone che vivono in condizioni di povertà e di esclusione sociale. Quell’area, insomma, che ricomprende una fascia non trascurabile di popolazione, che vive in condizioni di vita di particolare vulnerabilità, fragilità e che in questa prolungata fase storica di crisi economica – e relazionale – è in drammatica crescita.
I dati parlano chiaro
Partiamo da alcune cifre per comprendere come mai sia così urgente oggi portare al centro del dibattito i diritti sociali, tema tradizionalmente di scarso interesse per i media, ancor più per la politica (molto più attenta al dibattito sui profili etici della vita delle persone: quale sia il giusto modello di famiglia, la procreazione, il fine vita, ecc., che non a garantire adeguate condizioni di vita) ma che tocca la condizione umana di tanti: il 5,2 per cento delle famiglie italiane vive in condizione di povertà assoluta – 3,4 milioni di individui – e l’11,1% in condizione di povertà relativa (DATI ISTAT 2013). Il 17% dei bambini italiani vive in famiglia in condizione di povertà relativa ed il 27% è a rischio di povertà. Si tratta di una delle situazioni peggiori in Europa.
Nondimeno, sono oltre 2milioni e 800 mila le persone che vivono in condizione di non autosufficienza, di cui circa 2 milioni e 100 mila anziani (65 anni e +) e gli altri adulti e giovani.
UNA QUESTIONE DI SPESA PUBBLICA E FONDI
Stridente è il confronto tra la spesa pubblica dedicata in Italia e la media dell’Europa a 15. Secondo i più recenti dati Eurostat (2010), la spesa pubblica per la non autosufficienza (anziani e adulti con disabilità) si attesta in Italia all’1.6% del Pil contro il 2.1% europeo (Italia – 31%), distanza che cresce nelle politiche per la famiglia dove la spesa italiana è 1.3% rispetto al 2.1% europeo (Italia – 61%) e ancor più negli interventi contro la povertà, che vedono lo 0.1% mentre la media continentale è 0.4% (Italia – 75%).
La scarsissima considerazione che i governi centrali riservano da sempre (con qualche rara ma importante eccezione) alle politiche per il welfare sociale è ben dimostrata dalle scelte operate sui fondi ad esso destinati: a partire dal 2009 lo Stato ha progressivamente e drasticamente ridotto le risorse, riducendole di quasi il 95 % (fondo nazionale per la non autosufficienza, fondo nazionale per le politiche sociali, fondo famiglia, ecc.). Solo con la legge di stabilità per il 2013, a fronte di una dura protesta delle associazioni di rappresentanza del mondo della disabilità, il Fondo per la non autosufficienza è stato rifinanziato, ma solo per l’anno di riferimento, analogamente al Fondo nazionale per le politiche sociali. Ma nulla è stato disposto per gli anni a seguire e per il resto delle risorse lo sconfortante quadro è rimasto invariato. Sul versante opposto, i Comuni – cui è demandata la responsabilità di realizzare gli interventi sociali – fanno quello che possono, destinando al settore una spesa pari allo 0,46% del Pil, risorse ingenti per un ente locale ma che costituiscono una goccia nel mare della spesa pubblica.
LA DISTANZA TRA ENUNCIAZIONE E REALTA’
Sta tutta in questi numeri l’anomalia (meglio, l’emergenza) italiana: un paese che non si è dotato di una disciplina organica per l’esercizio effettivo dei diritti sociali e non ritiene di dover stabilizzare un sistema di finanziamento per la sua copertura. Ogni anno, dunque, non è dato sapere fino ad approvazione della legge finanziaria (ora legge di stabilità) se e quanto lo Stato destinerà al sociale.
Le convenzioni internazionali in materia di diritti umani forniscono una cornice di riferimento, precisa ed articolata, che chiede però di essere pienamente attuata. La tutela della dignità della persona, il diritto ad un livello di vita adeguato e quindi il correlato diritto all’accesso ai mezzi, strumenti ed ai servizi atti a garantirlo, sono principi riconosciuti nelle convenzioni che la comunità internazionale ha approvato nel tempo e che il nostro Paese ha ratificato. Anche se le stesse convenzioni ne hanno in parte affievolito la portata specificando che “trattandosi di diritti economici, sociali e culturali gli Stati adottano tali provvedimenti entro i limiti delle risorse di cui dispongono” (Articolo 4 Convenzione sui diritti dell’Infanzia).
Il diritto di ogni individuo ad un livello di vita adeguato per sè e per la sua famiglia, che includa alimentazione, vestiario, ed alloggio adeguati, nonché il miglioramento continuo delle proprie condizioni di vita è un principio che ritroviamo, ad esempio, nel “Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali” (1976, ratificato dall’Italia nel 1977), nella Convenzione sui diritti dell’infanzia, ratificata dall’Italia nel 1991 con la legge n. 176, in questo caso specificando che gli Stati adottino provvedimenti adeguati “per aiutare i genitori e altre persone aventi la custodia del fanciullo ad attuare questo diritto”; o nella più recente Convenzione ONU sui diritti umani, dedicata ai diritti delle persone con disabilità, ratificata dal nostro Paese nel 2009 (legge n. 18), che riconosce in particolare il diritto di “accesso ad una serie di servizi a domicilio o residenziali e ad altri servizi sociali di sostegno, compresa l’assistenza personale”.
Analogo l’indirizzo della Costituzione italiana che dedica ai diritti sociali disposizioni chiare ed inequivocabili. Senza entrare in dettaglio ricordiamo tra gli altri l’art. 38 che introduce un vero e proprio “diritto all’assistenza” specificando che “ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi e istituti predisposti o integrati dallo Stato”.
I LEP, QUESTI SCONOSCIUTI
Ai fini del nostro ragionamento centrale, tuttavia, è l’articolo 117 che assegna allo Stato il compito di determinare “i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”. Questo passaggio, introdotto con la Riforma costituzionale del 2001, non ha ancora trovato attuazione. I LEP (o LIVEAS, o LEPS) dovrebbero riguardare l’insieme degli interventi, dei servizi e delle risorse impegnate per attuarli. Ma in questi dodici anni, nonostante il vivace dibattito scientifico sviluppatosi intorno ad essi, il Parlamento non è riuscito a rendere operativo il riconoscimento dei diritti sociali: non sono stati quindi precisati quali siano gli standard prestazionali e non è stato garantito alcun finanziamento certo per assicurare un omogeneo sviluppo del sistema dei servizi e prestazioni sul territorio nazionale, né attraverso il Fondo nazionale per le politiche sociali né con il finanziamento delle funzioni fondamentali dei Comuni, nel contesto del federalismo fiscale.
Il diritto all’assistenza non è quindi un diritto, a differenza del diritto alla salute o all’istruzione, ambiti nei quali i livelli essenziali sono stati determinati. Avviene cosi, ad esempio, che l‘Italia sia l’unico Paese (insieme alla Grecia) nell’Unione Europea a non aver determinato uno strumento universale di contrasto alla povertà. Ma l’Italia considera la spesa per le politiche sociali “un costo che non ci possiamo più permettere”, nel resto dell’Europa si misura il costo dell’assenza di politiche sociali…
Nell’assenza dei LEP, ogni regione ed ogni territorio ha con diversa intensità elaborato un proprio sistema di servizi e prestazioni, contribuendo così a generare un Paese nel quale i cittadini non godono dei medesimi diritti, ma la cui protezione e assistenza è correlata al luogo di residenza.
Isabella Menichini