Pari opportunità tra uomini e donne. Questo, viene garantito dall’articolo 51 della Costituzione italiana (qui il testo completo). Un articolo, che ha sancito definitivamente l’emancipazione femminile e ha permesso la realizzazione dei principi di parità nel nostro Paese. Per Vox, la riflessione di Marilisa D’Amico, fondatrice di Vox e Ordinario di diritto costituzionale presso l’Università degli Studi di Milano.
L’art. 51 della Costituzione è il più tecnico fra tutti, ed è quello che si preoccupa di garantire parità di accesso fra uomini e donne agli uffici pubblici e alle cariche elettive. Si occupa, cioè, della presenza femminile nella sfera pubblica, naturalmente con un linguaggio e una prospettiva che oggi sembrano angusti, ma che per l’epoca rappresentavano un vero punto di arrivo. Le donne non esistevano nella sfera pubblica: pensate che quando a fine ottocento si tentò di inserire, senza riuscirci, alcune donne nelle liste elettorali, in virtù dell’articolo dello statuto che parlava genericamente di “regnicoli”, le decisioni dei giudici giustificarono quella esclusione, in quanto era “ovvio” che le donne non potessero partecipare alla vita pubblica e politica. Le donne, com’è noto, votarono per la prima volta nel 1946, in occasione del referendum sulla monarchia. In Assemblea costituente si discusse a lungo sulla necessità di una specificazione formale: non bastava “cittadini”, bisognava che la presenza delle donne fosse scritta (da questo discende l’inciso “uomini e donne”, che troviamo anche nell’art. 48 che garantisce il diritto di voto).
L’art. 51 si fonda sulle affermazioni dell’uguaglianza fra donne e uomini contenute nell’art. 3 e a esso si richiamano le bellissime parole di Teresa Mattei, quando affermava che: “nessuno sviluppo democratico, nessun progresso sostanziale si produce nella vita di un popolo se esso non sia accompagnato da una piena emancipazione femminile”.
Ma quanto è stata lunga e faticosa quella strada. E oggi, dobbiamo chiederci, abbiamo davvero costruito una democrazia “paritaria”?
Questa norma, dobbiamo ricordare, è l’unica fra quelle commentate che è già stata cambiata formalmente, con la riforma costituzionale del 2003, voluta soprattutto dalle donne, per superare la bocciatura delle “quote rosa” in materia elettorale da parte del giudice costituzionale (fatto allora di soli uomini).
Ma questa norma è anche quella che più di tutte le altre contiene un percorso di attuazione e una serie di conquiste del mondo femminile; conquiste, in parte ottenute già prima della formale modifica avvenuta nel 2003. Inizialmente, la portata innovativa dell’art. 51 Cost. fu infatti messa in discussione dal Giudice costituzionale: si pensi che con la sentenza n. 56 del 1958 fu salvata la norma che stabiliva che almeno tre dei sei membri laici delle Corti d’assise dovessero essere uomini (una sorta di quota al contrario a favore del sesso maschile, che esprimeva un pregiudizio nei confronti della capacità valutative delle donne). Ma solo tre anni dopo, con la sentenza n. 33 del 1960, in attuazione dei principi degli artt. 3 e 51 Cost., la Corte annullò la norma che escludeva le donne per motivi attitudinali da moltissimi impieghi pubblici, fra cui la magistratura, aprendo così il lungo cammino della realizzazione del principio di parità nel nostro Paese.
E’ stata una donna, Rosanna Oliva, con tenacia e caparbietà a portare la questione davanti alla Corte costituzionale, convincendo il professore con cui si era laureata, il famoso costituzionalista Costantino Mortati, a difenderla. E così affermando per tutti e definitivamente il principio, che non è la legge a stabilire i limiti e i paletti alla parità, ma è il principio di uguaglianza a dover essere concretizzato. E’ nella scrittura formale di questo articolo, che la Corte costituzionale di soli uomini trova l’appiglio per bocciare nel 1995 tutte le norme contenute nei sistemi elettorali che garantivano o promuovevano la presenza femminile in Parlamento e nelle altre assemblee elettive. La Corte sbaglia interpretazione nella decisione n. 422 del 1995, ma per anni questa scelta pesa come un macigno sulla possibilità di promuovere nei fatti la presenza femminile nelle assemblee elettive e in genere nelle istituzioni.
Parte così un lungo cammino, che piano piano ci ha viste tutte impegnate, per cambiare questo articolo e per promuovere misure che aiutassero a risolvere il problema.
In questo contesto, si fa strada la contrapposizione fra la filosofia delle “quote”, che rappresenta le donne come gruppo discriminato e che richiede una tutela speciale, e quella della parità (che verrà poi espressa nel termine di “democrazia paritaria” e si esprimerà nella richiesta del 50/50), che invece reclama piena presenza, in virtù di una eguaglianza formale e assoluta, che corrisponde ai numeri e alla sostanza delle donne nella società.
Nel 2003 viene cambiato il nostro articolo e per consentire l’ingresso alle “quote” si aggiunge l’inciso “a tal fine la Repubblica promuove le pari opportunità”: una formula volutamente generica che fin dall’inizio si è rivelata troppo debole; una formula che non ha vincolato la politica, in occasione dell’approvazione del “Porcellum” a introdurre norme antidiscriminatorie che, nel caso delle liste bloccate, avrebbero garantito la presenza femminile. E invece è successo il contrario fino a quando il tema della presenza femminile nelle istituzioni non è entrato pian piano nell’agenda politica. E quindi la storia dell’art. 51 ci dimostra che non basta il cambiamento formale, se ad esso non si accompagna una diversa interpretazione dei principi nella società e nella politica.
Quanto siano state le nostre iniziative, prima culturali e poi dell’associazionismo, e della politica, non spetta a me dirlo, ma certamente abbiamo fatto molto. Sono state le donne parlamentari, in modo trasversale, a battersi per la legge 120 del 2011, che è comunque una grossa conquista. La legge si fa infatti carico del problema della scarsissima presenza di donne ai vertici delle società quotate e a partecipazione pubblica, facendo propria l’idea che l’equilibrio tra i due sessi incide positivamente sul funzionamento degli organi decisionali (e tuttavia è singolare coma sia stato più semplice, in questi anni, occuparsi dei “vertici femminili”, anziché portare avanti misure più generali, per tutte, non solo per poche).
E ancora sono state le donne a volere la legge n. 215 del 2012 che ha introdotto la doppia preferenza di genere nelle elezioni comunali e che ha garantito la presenza equilibrata (cioè) paritaria dei due sessi nelle giunte, occupandosi anche delle campagne elettorali. Sono state le donne e le associazioni femminili a promuovere la lunghissima serie di ricorsi davanti al giudice amministrativo che hanno annullato giunte comunali, provinciali e regionali ‘monogenere’ o troppo squilibrate, conquistando per tutti e tutte il principio in base al quale la parità scritta nella costituzione e negli statuti non è affidata alla libertà delle scelte politiche, ma può essere rivendicata e che il principio di parità vincola la politica e le sue scelte discrezionali, in virtù del principio di legalità (Corte cost., sent. n. 81 del 2012).
E sono ancora le donne a rivendicare le tre preferenze nella legge elettorale europea. Ma in questi anni, come dicevo, non ci sono stati soltanto cambiamenti normativi importanti: con la nascita di SNOQ, come fenomeno nazionale e diffuso, la politica ha cominciato ad avvertire fortemente la necessità di inserire il fattore e la presenza femminile nella propria agenda. A partire dall’esperienza dei sindaci, che nel 2011 hanno accolto il modello delle giunte paritarie, comincia un cammino che rivoluziona i numeri della presenza femminile nelle istituzioni. Pensiamo anche alle primarie del pd con doppia preferenza di genere che hanno vincolato le scelte del partito, consentendo, alla fine, di innalzare sensibilmente la percentuale femminile in Parlamento. Oggi abbiamo anche, per la prima volta, un Governo paritario, dove è stato definitivamente abbandonato lo stereotipo che relegava le donne ad occuparsi di materia più tipicamente femminili
E tuttavia, proprio per questo, proprio perché oggi i numeri sono cambiati e siamo arrivate ad avere per la prima volta una presenza diffusa delle donne al vertice delle istituzioni, rileggendo il testo limitato dell’art. 51, ci accorgiamo che la semplice presenza non basta per realizzare davvero quella democrazia “fatta di donne e di uomini” di cui parlava Teresa Mattei. Non siamo ancora arrivate, anzi siamo molto lontane dal risultato, perché, per ora, la più ampia presenza femminile non ha assolutamente inciso sulla sostanza della vita delle donne, che invece arretra drammaticamente.
Questo conferma che i cambiamenti del testo della Costituzione non bastano e non basteranno, se ad essi non si accompagna un profondo cambiamento culturale. Al tempo stesso, questa constatazione invita tutte noi, in modi diversi, ma tutte insieme, a pretendere che le donne che stanno nelle istituzioni, si impegnino davvero a fare una politica al femminile e a migliorare le condizioni di vita delle altre donne, giovani e meno giovani.
E’ questo il nodo della democrazia “paritaria” italiana.