Perché è importante oggi redigere una Carta dei diritti di Internet? Quali sono i problemi e i nodi legati alla rete? Diritto all’oblio, all’anonimato, e democrazia nell’accesso alla rete sono alcuni dei punti toccati dalla proposta italiana. In attesa del testo definitivo, ecco un’analisi di Marco Bassini, esperto di diritto dei media dell’Università Bocconi (l’articolo è tratto dal sito www.diritticomparati.it. Per il testo completo, clicca qui).
La Commissione per i diritti e i doveri in Internet ha licenziato il mese scorso la prima bozza della Carta dei diritti. A un primo esame, due problemi possono inficiare la riuscita dei propositi della Dichiarazione. Da un lato, l’incertezza sulla “forza” normativa che la Dichiarazione è destinata a rivestire, trattandosi di un documento che appare destinato a essere relegato nell’ambito delle fonti di soft law. Dall’altro, il problema di una tecnica normativa a volte carente, che emerge in modo piuttosto evidente dall’analisi di alcune previsioni contenute.
Il preambolo offre certamente un quadro di sintesi sulle opportunità create da Internet e sulla sua dirompente portata in ogni campo e si sofferma sulla necessità di approntare un impianto di regole funzionale ad assicurare che le nuove opportunità offerte dalla tecnologia siano effettivamente garantite e non si trasformino invece in forme di discriminazione.
L’affermazione più problematica è senz’altro quella conclusiva, con la quale la Dichiarazione si auto-afferma come “strumento indispensabile per dare fondamento costituzionale a principi e diritti nella dimensione sovranazionale”. Si tratta di una sortita che risulta criticabile per almeno due motivi.
Sotto un profilo strettamente giuridico, non si comprende come un documento collocato nella gerarchia delle fonti, possa assurgere a strumento di protezione di un set di principi e diritti a livello sovranazionale. Su Internet sono infatti destinate a scontrarsi, per via dell’a-territorialità che le è propria, diverse sensibilità “costituzionali” e diverse visioni dei diritti in gioco. Pretendere che un documento di incerta forza giuridica possa fondare un riconoscimento costituzionale nella dimensione sovranazionale di tali diritti appare, se non una petizione di principio, quantomeno un’ambizione peregrina. In secondo luogo, prescindendo dagli aspetti inerenti all’efficacia sovranazionale di un documento concepito a livello nazionale, viene da interrogarsi se la Dichiarazione non abbia sottovalutato il catalogo di diritti fondamentali tuttora vigente nel contesto europeo. Non è casuale che l’attività delle due corti europee, quella di Lussemburgo e quella di Strasburgo, abbia offerto prova della capacità di farsi interprete di una nuova sensibilità nell’applicazione dei diritti fondamentali in gioco nella dimensione di Internet. Il tutto senza che fosse necessaria la definizione di norme ad hoc.
Un altro aspetto interessa l’intero impianto della Dichiarazione e conduce all’esame dei suoi articoli: è necessario pensare a una carta dei diritti per Internet? La risposta a questo interrogativo deve confrontarsi con il rapporto fra diritto e tecnologia. Ogni avanzamento tecnologico ha da sempre creato nuove opportunità e nuove minacce, senza tuttavia rendere necessaria l’istituzione di regole nuove. Occorre allora riflettere sull’effettiva necessità di introdurre, per esempio, un diritto di accesso a Internet, quando lo stesso diritto potrebbe senz’altro essere riconosciuto come appendice della possibilità di esercitare le libertà costituzionalmente tutelate in un “ambiente” nuovo, digitale.Desta così dubbi la formulazione dell’art. 2 della Dichiarazione, che se per un verso si riferisce all’accesso come un diritto fondamentale, per altro lo riguarda come un vero e proprio diritto sociale, imponendo la realizzazione degli interventi pubblici necessari “per il superamento di ogni forma di divario digitale”. Ma non basterebbe l’art. 3 della Costituzione?
Analogo problema si riversa nell’art. 4, che si concentra sulla tutela dei dati personali. La norma appare come una sintesi di principi già consolidati nello scenario europeo nella direttiva 95/46/CE sul trattamento di dati personali. Non si comprende l’utilità di ribadire anche in questa sede quanto è già parte della legislazione europea e in quella interna di recepimento. L’art. 6 mira a estendere la riserva di giurisdizione (ossia la necessità inderogabile di un provvedimento dell’autorità giudiziaria) all’ambito delle intercettazioni dei flussi di comunicazioni elettroniche e alle interferenze con il domicilio informatico. Nulla di più scontato nella giurisprudenza costituzionale e di legittimità che ha interessato l’art. 14 e soprattutto l’art. 15 della Costituzione.
La Dichiarazione si occupa, tra l’altro, di diritto all’identità, all’anonimato e all’oblio.
Sembra anzitutto inopportuna la scelta di scindere in due disposizioni distinte due profili che sono riconducibili a unità. Da un lato, l’art. 8 (diritto all’identità) enuncia il diritto a una rappresentazione integrale e aggiornata della propria identità su Internet. Dall’altro, l’art. 10 codifica il diritto all’oblio come mero diritto alla rimozione di dati dagli indici dei motori di ricerca.
Entrambe le norme sono inappaganti.
Anzitutto, l’art. 8 fa riferimento al concetto di “rappresentazione integrale e aggiornata” della propria identità e aggiunge che “la sua definizione […] non può essere sottratta all’intervento e alla conoscenza dell’interessato”. La norma non prevede alcuna forma di bilanciamento rispetto ad altri diritti, come la libertà di informazione. Rivendicare il controllo dell’interessato sulla costruzione della sua identità in rete significa trascurare l’esistenza di dati il cui ingresso nella sfera pubblica non può essere condizionato dal consenso dell’interessato. L’art. 10 invece aderisce alla nozione di diritto all’oblio elaborata dalla Corte di giustizia nel caso Google Spain. Tuttavia, la Dichiarazione riproduce le difficoltà interpretative che connotano la pronuncia della Corte di giustizia, tutt’altro che cristallina nell’indicare a quali condizioni la rimozione dei link possa essere assicurata.
Tra le ultime disposizioni, merita attenzione l’art. 12. Si parte con la sicurezza in rete, definita “interesse pubblico”. E fin qui, poco da discutere, sennonché le infrastrutture sono strumenti privati e forse rivendicare un intervento pubblico a tutela della sicurezza delle reti appare improprio. Quindi, si afferma che non sono ammesse limitazioni della libertà di manifestazione del pensiero e si prevede la garanzia della dignità delle persone da abusi connessi a “comportamenti negativi” come l’incitamento all’odio, alla discriminazione e alla violenza. La norma vuole forse significare che è tutelata ogni forma di espressione eccetto l’hate speech? Sono queste le uniche limitazioni ammesse? E quelle previste dall’art. 21 della Costituzione e dalle altre disposizioni dell’ordinamento che codificano i cosiddetti “limiti impliciti”?
Il commento all’ultima norma della Dichiarazione permette di trarre alcune conclusioni. Si evocano, quali condizioni per la tutela dei diritti in rete, regole conformi alla dimensione universale della rete, che ne garantiscano il carattere aperto e democratico; la partecipazione dei vari stakeholders; la costituzione di autorità nazionali e sovranazionali. Si tratta di strumenti, alcuni già collaudati, funzionali ad assicurare un effettivo enforcement di quel set di diritti che la Dichiarazione proclama. E, tuttavia, occorre riflettere se un’ulteriore compartimentazione serva a rafforzare la tutela dei diritti fondamentali in rete. La frammentazione del reticolato giuridico che deriva dall’adozione di strumenti che riflettono la sensibilità squisitamente domestica su problematiche di dimensione globale appare più un ostacolo che uno strumento utile alla causa dei diritti in rete. Quantomeno se la Dichiarazione, come sembra, pare volersi ritagliare un ruolo da protagonista, trascurando però che molti dei risultati cui essa aspira sono già stati raggiunti attraverso la valida opera interpretativa delle corti. Se invece l’obiettivo è quello, più modesto, di voler guidare l’interpretazione delle disposizioni già esistenti e magari stimolare riforme che rafforzino la tutela di alcuni valori in gioco, con i miglioramenti del caso la Dichiarazione potrà senz’altro aver pregio.