Vale più il diritto all’obiezione o quello alla salute? Quando si decide di lavorare per lo stato, prevale il diritto individuale o il dovere di fedeltà alla Repubblica? Queste, sono solo alcune delle domande a cui cerca di dare risposta la giurista Federica Grandi nel libro “Doveri costituzionali e obiezione di coscienza”. L’autrice analizza la contraddizione creatasi tra la legge 194 e uno dei suoi articoli, il 9, che prevede l’obiezione di coscienza.
In questi ultimi anni il problema dello statuto giuridico dell’obiezione di coscienza è diventato d’interesse pubblico. Valicando i confini degli archivi e dei tribunali è divenuto oggetto di intensi dibattiti e confronti serrati. Oggi l’espressione “obiezione di coscienza” fa subito pensare alla Legge 194/1978 e alla scandalosa percentuale di obiettori che ne vanifica l’applicazione, non garantendo l’accesso alle tecniche di interruzione volontaria di gravidanza (oltre il 70% la media nazionale, con picchi oltre 80% in molte regioni).
Bioeticisti, magistrati, medici, collettivi di donne e femministe, europarlamentari e presidenti di singole regioni, associazioni di professionisti e di pazienti hanno, con la loro attività e il loro impegno, contribuito a diffondere maggiore coscienza del fenomeno. E così, è diventata parte del nostro sapere comune la consapevolezza che tale drammatica situazione è causata dalla stessa L.194, la quale tutela all’art. 9 la possibilità per il personale sanitario, previa comunicazione al medico provinciale, di avvalersi dell’obiezione di coscienza in materia d’interruzione di gravidanza.
Gli obiettori, paradossalmente, sono tutelati dalla legge a disubbidire alla stessa. Il legislatore all’art. 9 non fissa alcun parametro, non indica una soglia d’allarme, ammette l’obiezione senza chiedere nulla in cambio, per cui medici e personale sanitario possono rifiutarsi di eseguire aborti senza dover prestare alcun servizio supplementare. Il risultato è una situazione illogica. Le conseguenze si misurano in termini di perdita di libertà e rischio per la salute delle donne, costrette a spostarsi di regione in regione alla ricerca di un medico non obiettore o indotte a ricorrere alle cliniche private (con alte probabilità che le donne meno abbienti e le migranti ritornino alle pratiche).
La legittimità dell’art. 9 è messa sempre più in discussione, le critiche sono sempre più esplicite e in molti casi radicali. Basti citare le recenti pronunce di Comitato Europeo dei Diritti Sociali che, accogliendo il ricorso presentato da LAIGA e IPPF (ricorso n. 87/2012), ha condannato l’Italia proprio in quanto non garantisce il diritto alla salute delle donne, sostenendo che l’obiezione di coscienza non può rappresentare un ostacolo al suo pieno raggiungimento.
Poiché all’art. 32 la nostra Costituzione afferma che «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo» e che «La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana», diventa cruciale chiedersi se l’istituto giuridico dell’obiezione di coscienza, così come previsto dall’art. 9 della L.194, goda dei criteri di costituzionalità.
Quest’interrogativo è al centro del bel libro della costituzionalista Federica Grandi, Doveri costituzionali e obiezione di coscienza, (Ed. SC. Napoli, 2014) la cui lettura risulta oggi fondamentale, proprio perché fondamentale è rispondere alla domanda che solleva: possiamo legittimare il diritto a non osservare leggi che garantiscono la tutela di diritti fondamentali, quali la salute e la libertà di scelta?
E’ un libro tempestivo quello di Grandi, che con la sua chiarezza e scrupolosità aiuta a destreggiarsi nell’attuale complicato intreccio di sentenze e linee guida, ricorsi e cause. Un libro utile a ricercatrici, avvocate e giudici, ginecologhe e ostetriche, così come ad attiviste e pazienti, in grado di spiegare quando e perché si è introdotto l’istituto giuridico dell’obiezione in relazione ai più svariati contesti, senza mai perdere di vista la meta: vagliare la costituzionalità dell’obiezione servendosi dello strumento dell’abuso di diritto per giudicarne la ragionevolezza.
Di certo quella di Grandi non è oggi voce isolata. In molte e molti si sono espressi contro il dilagare dell’obiezione. Recentissima è la notizia che Zingaretti, presidente della Regione Lazio, ha scelto d’intervenire attivamente per limitarne l’ulteriore aumento. In Lazio, infatti, l’obiezione di coscienza arriva al 90% e non riguarda solo gli ospedali. Il personale medico sanitario dei consultori laziali spesso si rifiuta di prescrivere la pillola del giorno dopo, definita dall’Aifa contraccettivo di emergenza, non farmaco abortivo (come invece lo è l’Ru486), o di firmare i certificati medici necessari ad accedere all’I.V.G. Le linee guida di Zingaretti, vietando l’obiezione al personale sanitario nei consultori e obbligandolo a firmare i dovuti certificati e a prescrivere contraccettivi post-coitali, non fanno altro che applicare quanto si legge dallo stesso art. 9 della legge. Zingaretti stesso ha fatto quello che ogni presidente di Regione dovrebbe fare, ha monitorato il problema ed è intervenuto al fine di garantire l’attuazione della legge.
I medici, dal canto loro, dovrebbero semplicemente mostrarsi disponibili ad applicare quanto la comunità politica ha individuato necessario al fine di garantire la sua stessa salute e il suo diritto all’autodeterminazione: posporre la propria coscienza al bene comune, prendersi cura delle donne senza giudicare le scelte da loro compiute.
Come Grandi ci sembra suggerire, non è più tempo di procrastinare, bensì di riconoscere la centralità decisionale delle soggettività giuridiche in questione: le donne, uniche titolari del diritto alla libertà di scelta.
Angela Balzano
L’articolo è estratto da www.ingenere.it. Visita il sito per il contributo completo.