Il dibattito sul femminismo e le polemiche sorte sul movimento delle giovani americane ‘Women against feminism’ (ne abbiamo parlato qui), impongono una riflessione sul fenomeno oggi e sulle complesse dinamiche ad esso legate. Quali sono i problemi coinvolti nel dibattito? Si tratta solo di un fenomeno mediatico? Si può sostenere che la diseguaglianza sessuale sia ‘strutturalmente’ superata? Per Vox, il commento esclusivo di Bianca Beccalli, sociologa e professoressa dell’Università degli Studi di Milano.
‘Donne contro il femminismo’ titola Federico Rampini, un brillante articolo da New York sulla Repubblica di fine luglio 2014, con il quale stimola anche in Italia una polemica che da mesi negli Stati Uniti ha invaso la blogosfera coinvolgendo tante giovani donne e alcune autorevoli ‘madri’ del femminismo, le quali hanno dato origine a una campagna opposta ‘why we need feminism’.
Quali sono i problemi coinvolti nel dibattito? Un po’ arbitrariamente li riduco a quattro. In primo luogo: i due opposti schieramenti sono costruzioni mediatiche o fenomeni strutturali? In secondo luogo, l’alternarsi di ‘madri’ e ‘figlie’ corrisponde a un ricorrente pendolo generazionale? Oppure, sempre come pendolo, possiamo riconoscere nel fenomeno in corso la ricorrente oscillazione storica tra lotta per l’eguaglianza e valorizzazione della differenza tra i sessi? Infine, si può sostenere che non vi sono pendoli ma che vi è un trend, che la diseguaglianza sessuale è strutturalmente superata, quindi non vi è più materia per contendere?
Cominciamo dai punti più facili tra i quattro menzionati, il primo e l’ultimo. Che sia un fenomeno mediatico è ovvio, date le sue forme espressive. Ma da questo a dire che è solo mediatico ce ne corre. Quali dati ci possono indicare le forze sociali e culturali sottostanti quelle forme espressive? E poi non vi è dubbio che il fenomeno mediatico sia un fatto sociale in sé, che a sua volta influenza i linguaggi e i modi di pensare le esperienze di vita e di lavoro di donne e uomini, quindi ha un suo peso, anche se difficilmente quantificabile. Quanto al quarto punto cioè se vi sia una svolta decisiva nell’eliminazione della disuguaglianza sessuale, non vi è bisogno di analisi raffinate: basta uno sguardo ai database più accessibili (OECD, ISTAT, Eurostat) per vedere che, specie in Italia, l’accesso al lavoro è più difficile per le donne e ancor più lo è il percorso di carriera. Proprio per le giovani donne che hanno spesso superato i maschi nelle credenziali formative, entrando anche in percorsi formativi tradizionalmente maschili (le materie stem: science, technology, engineering, maths), il rallentamento della carriera arriva ben prima del tetto di cristallo: ormai nelle metafore usate dalla sociologia delle organizzazioni non si parla più di glass ceiling ma di leaky pipeline, il tubo che perde ben prima di arrivare al tetto. Una perdita dipendente da tanti fattori, dal diverso peso della genitorialità (se c’è e anche quando è condivisa) o forse dal persistere della discriminazione sessuale anche a fronte di donne altamente qualificate e nubili.
Il secondo tema, quello del pendolo generazionale, viene messo particolarmente in evidenza nelle campagne mediatiche: ‘figlie contro le madri’ sono le parole chiave di questo dibattito. Ma le indagini storiche e sociologiche di cui disponiamo si limitano a individuare alcuni, ma solo alcuni, momenti storici in cui una generazione ‘ribelle’ si erge portatrice di orientamenti e di innovazione culturale, siano essi progressisti o tradizionalisti. Ciò vale per i diritti in generale, e per il femminismo in particolare, come andiamo ad affrontare nel terzo punto.
Siamo entrati in una fase storica in cui i due poli culturali dell’eguaglianza e della differenza tra i sessi sono tornati a confrontarsi? E avviene questo a vantaggio della differenza dopo che la seconda metà del XX secolo ha visto un affermarsi progressivo dell’eguaglianza, soprattutto nel campo dei diritti, nonostante i limiti della loro attuazione e le importanti controversie che vi sono state (basti ricordare quella della discriminazione rovesciata, il caso Bakke; e quella dei diritti di gruppo contro i diritti individuali degli individui deboli del gruppo, come il multiculturalismo a svantaggio delle donne)? Dunque si tratta di una transizione di fase nel coacervo di mutamenti sociali veloci, spinti anche dalla globalizzazione: è mutata la configurazione dei diritti, per tutti ma in particolare per i diritti di genere. Se ci riferiamo alla classica triade di T. H. Marshall (secondo la quale prima si accede ai diritti civili, quelli dell’habeas corpus; poi a quelli politici, l’elettorato attivo e passivo; infine a quelli sociali, il diritto dei cittadini – solo i cittadini in senso proprio? – ad accedere ai beni ritenuti indispensabili e/o dignitosi in un certo momento storico) il mutamento in corso riguarda sia la sequenza che i contenuti dei diversi diritti, e le donne sono soggetto e oggetto privilegiato di tale mutamento, potenziali vittime o vincitrici.
Si è data, in Italia, negli Stati Uniti e in altri paesi nel Nord del mondo, una singolare convergenza di discorsi ideologici diversi, che operano a favore della differenza e contro l’eguaglianza nella pubblica opinione e nelle pratiche sociali. Le parole chiave sono ‘scelta’ e ‘natura’. Le donne, ‘naturalmente’ portate al lavoro di cura ‘scelgono’ quella priorità rispetto ad altri ruoli nel mondo pubblico, vuoi quello del lavoro vuoi quelli della politica. Le regole del gioco in quei mondi rimangono immutabili: anche se nel linguaggio della UE e di altri soggetti internazionali si parla molto di conciliazione tra famiglia e lavoro, è chiaro che la conciliazione è ‘un affare per donne’, riguarda solo aggiustamenti minori in nome della flessibilità (tranne casi che vanno clamorosamente in direzione opposta a quella della conciliazione, come quello della CEO di Yahoo, Marina Mayer, che dopo il parto decise di accorciarsi la maternità a poche settimane, caso citato appunto nell’articolo di Rampini).
Il termine scelta è una parola chiave del neoliberismo. È interessante notare come sia diventato una parola chiave di nuovi femminismi, che rivendicano la differenza a dispetto della domanda di emancipazione. Non è certo la prima volta che donne si schierano contro richieste dei movimenti delle donne, valga per tutti il caso della sconfitta dell’Equal Rights Amendment negli Stati Uniti. Jane Mansfield ne ha fornito un’analisi politologica classica, da cui risulta che la modifica della costituzione degli Stati Uniti a favore della parità fu osteggiata soprattutto dalle donne, ma la democrazia a specchio, la mirror democracy, è superata negli attuali dibattiti sulla democrazia e sulle pari opportunità.
Ma se il pendolo tra emancipazione e differenza è ancora oscillante in diversi paesi, va notato che in Italia le radici della differenza sono sia antiche sia recenti: vengono dalla profonda influenza della cultura cattolica, e sono state rinnovate dall’importanza che ha assunto nel movimento delle donne un femminismo della differenza che si è radicato più che in altri paesi. Al confronto con la esplosione americana, ‘le figlie contro le madri’, quale sarà la versione italiana?