1700 detenuti in una struttura costruita per 700 persone. Questa, la condizione nel carcere San Vittore di Milano secondo i dati forniti da Antigone, l’Osservatorio sulle condizioni di detenzione in visita negli istituti di pena più critici d’Italia. Mentre il tema del sovraffollamento carcerario rimane al centro del dibattito, VOX ha intervistato Maria Laura Fadda, magistrato di sorveglianza del tribunale di Milano, e Alessandra Naldi, Garante delle persone private della libertà personale del Comune di Milano e membro dell’associazione Antigone.
“Ripensiamo il nostro sistema di detenzione: in carcere vadano solo i condannati più pericolosi”
Parla Maria Laura Fadda, magistrato di sorveglianza del tribunale di Milano,
Quanto incide il problema del sovraffollamento carcerario nell’attività del magistrato?
Non soltanto incide, ma addirittura condiziona l’attività della magistratura di sorveglianza. Il sovraffollamento, infatti, oltre a rendere più penosa o addirittura disumana la detenzione per la ristrettezza degli spazi, influisce anche sulla tutela dei diritti dei detenuti, rendendola oltremodo problematica.
Infatti, non si tratta soltanto di un problema di tipo organizzativo, di cattiva amministrazione o di mancata modernizzazione del sistema giustizia e di sicurezza. Il sovraffollamento penitenziario ci interroga in modo pressante sul rispetto dei valori fondanti del Patto costituente della nostra convivenza civile: sulla tutela dei diritti inviolabili dell’uomo e sui doveri di solidarietà a cui è richiamata la nostra organizzazione sociale, economica e politica; sulla pari dignità e sulla eguaglianza delle persone davanti alla legge; sul senso di umanità che deve presiedere alla esecuzione delle pene; sulla efficace protezione della salute di ogni individuo; sull’impegno a rimuovere gli ostacoli che impediscono lo sviluppo della persona e sulle effettive opportunità di partecipazione o reintegrazione nella vita sociale. Finché il carcere sarà percepito come una discarica sociale del sistema istituzionale, come un luogo in cui si possono tollerare violenze ed illegalità, carenze nella cura e nell’assistenza dei malati e dei disabili, diffusione di malattie, promiscuità, nell’errata convinzione che le illegalità “dentro” siano funzionali a garantire la legalità e la pace “fuori”, il carcere rimarrà dimenticato ed estraneo alla vita civile.
In queste condizioni, se è già difficile garantire il rispetto anche delle condizioni minime di accettabilità della vita in carcere (dal cibo sufficiente per tutti, all’igiene dei locali e personale consentendo una più frequente fruizione della doccia, alla presenza di acqua calda e riscaldamento di inverno) diventa ancora più complesso garantire la fruizione di diritti come, ad esempio, l’istruzione e l’attività lavorativa.
Inoltre, l’aumento del numero dei detenuti, ha determinato per la magistratura di sorveglianza, un esponenziale aumento del carico di lavoro. E‘ un dato generalmente sconosciuto che i magistrati di sorveglianza, cioè l’autorità giudiziaria che sovraintende all’esecuzione della pena in Italia, sono soltanto circa 180 a fronte di circa 6000 magistrati, civili e penali; in queste condizioni, aggravate dalla penuria di risorse di personale e mezzi anche più elementari (carta, toner per esempio), è ben difficile intervenire per cercare di migliorare la condizione dei ristretti ed essere orgogliosi del risultato del proprio lavoro.
Il Presidente della Repubblica ha individuato nell’amnistia una possibile soluzione al problema del sovraffollamento delle carceri. Ritiene che esistano soluzioni diverse ed egualmente efficaci sulla base della sua esperienza di magistrato di sorveglianza del tribunale di Milano?
I provvedimenti di clemenza come l’amnistia e l’indulto rappresentano in astratto la soluzione risolutiva per ridurre in tempi brevi la presenza dei detenuti; del resto, questa è sempre stata la soluzione adottata in Italia, dove si sono succedute amnistie circa ogni due anni dal 1945 al 1988. Oggi vi è una sensibilità largamente diffusa di segno contrario che teme l’insicurezza sociale, l’oblio delle istanze delle vittime, la vanificazione del lavoro faticoso svolto dalle FFOO e dalla magistratura per identificare e assicurare la detenzione degli autori dei reati, ma che soprattutto non ritiene che tale scelta possa essere risolutiva e duratura.
Sarebbe dunque auspicabile che la difficile situazione attuale costituisca lo stimolo sia per ripensare le modalità di esecuzione della pena detentiva, consentendo l’uscita dalla cella non solo per due ore al giorno (come oggi ancora avviene), ma per più tempo tenendo impegnati i reclusi con attività risocializzanti e professionalizzanti, ma anche per riformare complessivamente il sistema penale.
Nel nostro sistema, infatti, coesistono problematicamente un codice penale risalente al 1930 che prevede pene edittali molto alte, a cui si è aggiunto il codice di procedura penale del 1988 con la scelta del rito accusatorio e di molte leggi successive non organicamente coordinate tra loro, anzi spesso ispirate da esigenze contrapposte. Un dato può servire a chiarire la situazione: la popolazione penitenziaria tra il 1974 e il 2011 è aumentata in misura pari al 240%, mentre nello stesso arco temporale la popolazione residente in Italia è passata da 55.000.000 a 60.600.000 unità, con un incremento pari all’11% .
Per consentire che i livelli di detenzione scendano rispetto a quelli attuali, occorre un salto culturale che consenta di abbandonare l’ottica carcerocentrica tipicamente italiana per costruire un sistema che preveda una pluralità di sanzioni, anche di tipo riparatorio o comunque di attivazione socialmente utile o a custodia attenuata, come in una comunità di cura per i tossicodipendenti, così da rendere il ricorso alla detenzione soltanto residuale e applicabile ai condannati più pericolosi.
A seguito della sentenza della Corte Costituzionale sul tema del sovraffollamento carcerario, di cui si attendono ancora le motivazioni, lei ritiene che il rinvio della pena sia una base di partenza per l’intervento del legislatore o si aspettava una pronuncia diversa dalla Corte?
L’ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale sul rinvio dell’esecuzione della pena quando questa si declina con modalità disumane e degradanti è stata a lungo riflettuta e studiata ed era sembrato l’unico spiraglio presente nel testo legislativo vigente per impedire che si protraesse una detenzione con quelle caratteristiche. Certamente, la scarcerazione, potrebbe sembrare in astratto, una conseguenza troppo “forte”, ma occorre evidenziare che l’art. 3 CEDU che vieta il ricorso alla tortura, è norma assolutamente cogente e inderogabile, anche in caso di guerra e pertanto la sua tutela deve essere assoluta.
Del resto, in altri ordinamenti, ad esempio in Germania e negli Stati Uniti, la Corte Costituzionale tedesca e la Corte Federale della California (organismi giurisdizionali) hanno imposto la scarcerazione di detenuti la cui detenzione si stava svolgendo in condizioni tanto disumane da essere paragonabili a tortura. Anche Strasburgo, nella sentenza Torreggiani ha stabilito che, qualsiasi pena che comporti il sacrificio di altri diritti fondamentali oltre la soglia preventivamente determinata, rende la pena disumana e degradante e quindi illegale nella sua esecuzione.
Come dire: la pretesa punitiva dello Stato può soddisfarsi solo attraverso un’esecuzione rispettosa della legalità. Se l’esecuzione della pena non può essere tale, l’esecuzione diventa illegittima e quindi allo Stato non resta che rinunciare a punire.
Peraltro, la sentenza Torreggiani ha anche chiesto al nostro legislatore di prevedere un rimedio giurisdizionale, percorribile nel nostro Stato, utile ed efficace ai fini della tutela del diritto del detenuto a non subire quelle condizioni di detenzione.
Per comprendere perché la strada proposta dai remittenti non sia stata ritenuta percorribile dal giudice costituzionale, occorrerà leggere le motivazioni della sentenza, che sembrerebbe, a quanto si è letto nel breve comunicato emesso nell’immediatezza dell’udienza, una sentenza monito rivolta al legislatore affinchè individui, in tempi certi, i rimedi all’attuale situazione.
Certo, forse sarebbe stato auspicabile individuare sin da subito la strada maestra che consentisse al giudice deputato alla tutela dei diritti dei detenuti di intervenire per far cessare la violazione dell’art. 3 CEDU, strumento di cui a oggi, il nostro ordinamento è ancora monco.
Vox ha affrontato la questione anche qui