Anche quest’anno i numeri parlano chiaro. Di fronte a una diminuzione dei tweet raccolti (circa 629 mila nel 2022, contro i quasi 800 mila nel 2021: si conferma una tendenza in atto da alcuni anni), aumentano percentualmente – e di molto – quelli negativi (il 93% nel 2022 contro il 69% nel 2021), con un’indicazione costante per i tutti i cluster analizzati: in tutti i cluster infatti prevalgono, di gran lunga, i tweet negativi, mentre l’anno precedente il dato era meno omogeneo. Meno tweet complessivamente, ma più incattiviti. A proposito di cluster, quello più colpito è sempre quello delle donne. La misoginia e l’hate speech di carattere misogino continuano drammaticamente a essere diffusissimi, su Twitter e in generale nei social media (come drammatica è la continua, lunga scia di femminicidi nel Paese). E il contrasto alla violenza di genere non trova certo nella rete un alleato, come dimostra Lilia Giugni ne La rete non ci salverà, ma anzi un sistem(at)ico antagonista. Cresce notevolmente anche l’abilismo. Pur tenendo conto delle riserve già espresse a commento della Mappa del 2021, ovvero che alcune parole o espressioni che rientrano nel campo semantico della ‘disabilità’ sono spesso usate come epiteti generici, parzialmente desemantizzati, e non per colpire direttamente persone con disabilità, resta il dato complessivo: il sentiment dei tweet è estremamente negativo proprio a causa di quelle parole. E si presenta una co-occorrenza ancora da indagare ma presumibilmente significativa: le aggressioni, gli episodi di violenza, e il bullismo nei confronti di persone con disabilità sembrano in aumento, come rivelano i tanti episodi di cronaca degli ultimi mesi. Rese invisibili e fortemente discriminate durante la pandemia – come evidenziato già a fine 2020 dal rapporto dello European Disability Forum Impact of COVID-19 on persons with disabilities: European Leaders must act now – le persone con disabilità si trovano spesso al centro di una tenaglia ‘discorsiva’ che ne schiaccia la voce e le rappresentazioni tra stigma (quando non derisione) da un lato e urticante paternalismo dall’altro. E la dolosa leggerezza con cui nella comunicazione breve e rapida di Twitter si usano termini ed evocano categorie e stereotipi legati alla disabilità (come se questa fosse una condizione ontologica, e non socialmente e culturalmente determinata) sembra non a caso riflettere una società che si accontenta dei cliché, non solo linguistici, per evitare di entrare nel merito dei diritti delle persone, e delle loro violazioni. E anche questo non sembra casuale. Se da un lato la lingua – parafrasando un importante saggio di Uwe Pörksen – sembra essersi “plastificata”, per un lungo “processo… di lenta e perdurante disumanizzazione, dovuto alla perdita della ricchezza delle relazioni umane, che da sempre si riflettono nella varietà semantica delle parole della lingua discorsiva”, con “parole come destino di un’età in cui l’omologazione si è sostituita alla differenza” (Roberto Gilodi); dall’altro il discorso si è fatto più radicale e offensivo, come già rileviamo da alcuni anni, accentuandosi durante la pandemia. La fragilità e la precarietà a cui ci ha esposto il Covid non si è tradotta – come sarebbe stato auspicabile – nella domanda di più diritti universali, ma in una risposta arroccata per la paura di perdere le proprie sicurezze individuali. Ognun per sé, come prima della pandemia, ma con più insicurezza, con più antagonisti con cui dividere risorse sempre più scarse, e diritti sempre più erosi. Alcune dinamiche, d’altronde, cominciano ad essere chiare, a disvelarsi, come ci spiegano con dovizia di analisi le indagini di Walter Quattrociocchi e della sua squadra di data analyst: sui social (malgrado i dovuti distinguo: sono tutti diversi per utenza, funzionalità, potenzialità del mezzo), cerchiamo la conferma di ciò che già sappiamo (bias cognitivi), ignoriamo (e avversiamo) ciò che non ci piace, ci agitiamo – e sbraitiamo – se qualcuno ci contraddice. Formiamo e facciamo parte di gruppi piuttosto chiusi con cui condividiamo la nostra visione e interpretazione del mondo (echo chamber, ormai una costante nella nostra vita), e non ci esimiamo a schierarci – come tifosi sempre eccitati – o da una parte o dall’altra (polarizzazione): tertium non datur. Non ci fidiamo di sconosciuti o apostati, e anzi ci lanciamo in moderne guerre di religione, aggressivi e competitivi. Chi non è con noi, è contro di noi, con buona pace delle faticose ma necessarie mediazioni cui ci obbliga(va)no le conversazioni vis-à-vis. Comincia ad essere un po’ più chiara quindi – proprio grazie alla Mappa – la relazione tra tweet d’odio e le informazioni a cui siamo esposti, le notizie trigger (spesso costruite ad arte, come esche per pesci dalla prevedibile routine) e i nostri commenti ad esse, i network informativi e comunicativi nei quali (ci) siamo rinchiusi e l’effetto priming, gli sciami di hate speech come reazione a fatti o a contesti specifici, localizzabili: non si spiegherebbero altrimenti i picchi e le geolocalizzazioni rilevati puntualmente anche quest’anno. Restano tuttavia alcune domande, tanto sul piano del metodo quanto su quello dell’analisi – e anche in questo le Mappe continuano a far riflettere e a sollecitare approfondimenti –soprattutto nella considerazione dei testi (parole, ma anche gif, meme) prodotti e diffusi, dei modi in cui vengono interpretati, rilanciati e riprodotti, delle fonti da cui provengono o a cui attingono. Nonché degli account da cui hanno origine, prima di diventare virali. Sarebbe interessante capire infatti, se parte di quei tweet di segno negativo vengono messi in circolazione da un numero ridotto di account (quali?), o se invece stia crescendo il numero delle persone che alimentano la polarizzazione, in particolare verso alcuni cluster ampi e generici (donne, xenofobia), andando a traino. Come sarebbe interessante, credo, indagare a fondo il cluster ‘ebrei’, per capire se davvero – come ipotizzato da recenti ricerche – l’antisemitismo stia prepotentemente (e scandalosamente) riprendendo piede, sfruttando tutte le potenzialità ‘creative’ e intertestuali del mezzo, internazionalizzandosi, innovandosi per fuggire a filtri o algoritmi; o ancora il cluster ‘islam’, per verificare quanto l’islamofobia possa trovare terreno fertile in alcuni particolari territori o contesti (quelli ad esempio in cui si continua a ostracizzare la presenza di luoghi di culto), o se invece sia causata prevalentemente da trigger meno localizzati, che sfruttano avversioni e diffidenze generiche. Last but not least, potrebbe essere utile fare carotaggi intersezionali, per cogliere meglio, ad esempio, se e quanto le discriminazioni di genere si riflettano nei cluster disabilità o xenofobia. Alcune consapevolezze sembrano consolidarsi, insomma; altre vengono sfidate dalle variabili postpandemiche, altre ancora andrebbero istruite con ulteriori approfondimenti, perché l’analisi non si fermi al dato quantitativo ma si spinga a indagare sempre più in profondità, qualitativamente, un fenomeno radicato ma in continuo mutamento. Se, come scrive Lilia Giugni, “la rete non ci salverà”, che almeno ci obblighi a farci delle domande, a non accontentarci delle risposte.