Lo scorso 8 gennaio 2013, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per le condizioni delle carceri italiane “inumane e degradanti”. La sentenza Torreggiani ha previsto una serie di soluzioni per rispondere all’obbligo di conformazione alla sentenza sovranazionale: ma quali sono le soluzioni promosse dal nostro Paese? Chiara Chisari, laureata in giurisprudenza all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ha provato per Vox a fare una riflessione. Ecco che cosa è successo in questi anni per ridare dignità ai nostri detenuti.
di Chiara Chisari
L’8 gennaio 2013, con la sentenza Torreggiani e Altri c. Italia, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha (nuovamente) condannato l‘Italia per la violazione dell’art. 3 della CEDU: pur escludendo la volontà delle autorità italiane di sottoporre i detenuti a trattamenti inumani e degradanti, la Corte ha constatato condizioni di reclusione incompatibili con il rispetto della dignità umana ed eccedenti il livello inevitabile di sofferenza connesso alla detenzione penale.
A favore dei detenuti, i giudici di Strasburgo hanno previsto indennizzi per il danno subito di entità variabile tra i 10.600 e i 23.500 euro, calcolati in relazione alla durata del periodo di detenzione in violazione dell’art. 3 della CEDU. Complessivamente lo Stato italiano è stato costretto al pagamento di circa 96.000 euro.
Ma non è tutto. Con la sentenza Torreggiani, la Corte EDU ha evidenziato che il sovraffollamento delle nostre carceri non era dovuto a problema sistematico, da ricondurre al malfunzionamento cronico dell’organizzazione penitenziaria nazionale, e dunque bisognosa di specifici e incisivi interventi di carattere strutturale. Per questo i giudici europei hanno incitato l’Italia a muoversi: entro un anno dal 27 maggio 2013, data in cui la Torreggiani è divenuta definitiva, la Corte ha raccomandato una riparazione effettiva alle violazioni della CEDU derivanti dal sovraffollamento.
I termini imposti per adempiere l’obbligo di conformazione alla sentenza sovranazionale sono, da tempo, scaduti. Vediamo dunque quali sono state le soluzioni promosse dal nostro Paese.
Come tra l’altro era stato suggerito dalla stessa Corte EDU, la riforma delle politiche penali e dell’organizzazione del sistema penitenziario italiano è avvenuta in riferimento a due piani d’azione. Da una parte, si è cercato di incidere sulle cause del sovraffollamento, mentre, dall’altra, sono stati previsti dei rimedi a carattere giurisdizionale che fossero in grado di riparare alle violazioni dei diritti dei detenuti.
Si è assistito così all’introduzione di disposizioni utili a garantire un più ampio accesso alle misure alternative alla detenzione e ai benefici penitenziari, è stata limitata l’area di operatività della custodia cautelare in carcere ed è stato esteso l’ambito di applicazione del meccanismo della sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva, circostanze queste favorite dal d.l. 78/2013 (convertito in l. 94/2013) e dal d.l. 146/2013 (convertito in l. 10/2014).
La legge 10/2014 ha poi messo ordine nel reclamo al magistrato di sorveglianza, soffermandosi in particolare sulla figura del reclamo giurisdizionale, che trova oggi riconoscimento normativo all’art. 35-bis o.p. Si tratta di quello strumento di cui i detenuti possono servirsi per evitare il protrarsi di eventuali situazioni lesive dei loro diritti; qualora la violazione lamentata nel reclamo sia accertata, il magistrato dovrà ordinare all’amministrazione penitenziaria di «porre rimedio», rimedio che, nel caso del sovraffollamento, non potrà che sostanziarsi nel trasferimento del detenuto in una diversa cella o istituto.
Se l‘art. 35-bis o.p. si pone quale rimedio preventivo alla lesione dei diritti dei detenuti, il legislatore italiano ha anche previsto una forma di rimedio compensativo, che dovrà intervenire a fronte di eventuali violazioni già patite dai reclusi. Rileva in materia la l. 117/2014 che inserisce nell’Ordinamento Penitenziario l’art. 35-ter. Quando un detenuto sia sottoposto a condizioni di detenzione tali da violare l’art. 3 della CEDU, dovrà essergli concessa a titolo risarcitorio una riduzione della pena ancora da espiare, riduzione che dovrà corrispondere a un giorno per ogni dieci di trattamenti inumani e degradanti sopportati; qualora la pena residua fosse troppo esigua o inesistente, dovrà essergli attribuita allo stesso titolo una somma di denaro pari a 8,00 euro per ciascun giorno di pregiudizio subito.
Questi sono gli interventi attuati dal nostro Paese: darne una valutazione non è certo un facile compito. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e il Consiglio d’Europa hanno espresso un giudizio favorevole rispetto alle riforme poste in essere dall’Italia, sia in termini di misure concernenti il sistema penale, sia con riguardo ai rimedi giurisdizionali adottati. Effettivamente, i dati relativi al sovraffollamento paiono tendere a ribasso rispetto al 2013: i soggetti detenuti presenti nei nostri istituti penitenziari al 30 settembre 2016 erano 54.465, a fronte delle 62.536 unità che si registravano al 31 dicembre 2013.
Ma se questo è vero, è però anche vero che la stessa Corte si sarebbe riservata di effettuare prossimamente ulteriori valutazioni circa l’effettività delle soluzioni abbracciate dal nostro legislatore, volendo indagare la portata in concreto: in particolare, l’adeguatezza dei ricorsi ideati per riparare alle violazioni dell’art. 3 CEDU potrà chiaramente essere realmente apprezzata soltanto alla luce delle decisioni rese dai giudici nazionali e della loro esecuzione.
Purtroppo, ad oggi non disponiamo ancora di specifiche pronunce in tal senso, e non è quindi possibile confrontarsi con il punto di vista attuale della Corte di Strasburgo circa l’(in)umanità delle nostre prigioni. Non potendo però evitare un giudizio sull’incisività delle riforme post Torreggiani, sembra opportuno tentare qualche riflessione.
Tralasciando i tecnicismi, due sono le osservazioni che non possono essere taciute. Per quanto riguarda il rimedio preventivo (art. 35-bis o.p.) è ovvio che l’efficacia della norma non possa che dipendere dalla diffusione delle violazioni contestate. Premettendo che, al di là dei miglioramenti di cui si è accennato, le carceri italiane risultano attualmente ancora sovraffollate, come si può pensare che il provvedimento con cui un magistrato dovesse imporre il trasferimento di un detenuto vista l’insufficienza dello spazio vitale a sua disposizione possa essere eseguito? Se i nostri istituti di pena sono saturi, se non esistono carceri in cui il numero delle presenze risulti inferiore alla capienza regolamentare, come si può ipotizzare la mobilità dei reclusi all’interno delle stesse? “Impossibile” verrebbe da dire; e non sembra ci sia molto altro da aggiungere.
Guardando invece al rimedio compensativo (art. 35-ter o.p.), lascia perplessi la previsione della riduzione della pena, così come del risarcimento monetario, basati su coefficienti predeterminati dalla legge. In questo modo, la quantificazione del danno verrà effettuata unicamente in relazione all’elemento oggettivo del pregiudizio sofferto, trascurando tutti gli altri profili attinenti al singolo caso, che, logicamente, sarebbero idonei a definire situazione di lesione aventi caratteristiche differenti, anche nei termini di un differente valore di gravità. Un’indagine ministeriale del 2014 ha poi messo in luce ulteriori criticità: da una parte sono emerse difficoltà operative in relazione all’istruttoria delle istanze, mentre, dall’altra, si riscontrerebbero particolari complessità interpretative del testo normativo, complessità tali da sollevare dubbi riguardo a quale sia l’organo cui dovrà rivolgersi il detenuto che abbia subito trattamenti inumani e degradanti e riguardo alla possibilità che lo stesso detenuto possa o meno lamentare una violazione non più attuale. Di effettività, insomma, non sembra potersi parlare.
Senza negare gli sforzi compiuti dal legislatore nazionale, non si può non osservare che le riforme di cui abbiamo brevemente trattato diano l’impressione di una serie di interventi disorganici e settoriali, volti principalmente a realizzare una progressiva decarcerazione e ad incidere in senso deflattivo sul carico giudiziale; il che, nel breve periodo, è certamente positivo, ma non risolve le problematiche strutturali che affliggono la dimensione penitenziaria e che necessiterebbero di una radicale messa in discussione dell’intero complesso ordinamentale. Nell’ottica di innovare, sarebbe probabilmente più proficuo optare per una vera e propria rivisitazione del significato che ormai viene attribuito alla pena, concepita esclusivamente nella sua componente repressiva e non in quella riconciliativa e rieducativa. Occorrerebbe, insomma, un vero e proprio cambiamento di prospettiva, una rivoluzione culturale, per una pena e una società più giusta.