“Non ritengo esista un teorico diritto a essere antireligioso e… il fatto che io accetti qualsiasi ammissione o dichiarazione di fede non significa che io ne certifichi la sincerità, è un atteggiamento che discende dalla mia laicità”.
Così il ginecologo Carlo Flamigni che partendo dal “diritto di essere progressivamente scettico, incredulo, sgradevolmente stupito e infastidito, anticlericale e irreligioso” si propone di affrontare “contorsionismi cattolici sulla fine della vita e sul testamento biologico” con un approccio aperto al confronto.
Un appello, il suo, rivolto “a tutti quei cattolici che hanno a cuore la mia libertà altrettanto quanto io ho a cuore la loro”. La meta? ”I valori che abbiamo in comune”. Il segreto? “Essere uomini di buona volontà”.
Esistono diritti concreti nei confronti dei quali – per manifesta ovvietà – manca qualsiasi forma di vis polemica: quando i diritti sono così evidenti da rendere ogni discussione che li riguardi assolutamente banale (fatte salve naturalmente le anomalie patologiche di alcune società malate di assenza di democrazia) nessuno ha interesse a discuterli. Penso al mio diritto di essere libero, di poter ricorrere a una Giustizia equa, di far educare i miei figli in una scuola laica, di veder rispettata la mia dignità, di essere trattato secondo i miei meriti e premiato o punito di conseguenza. Penso al mio diritto di vivere in un paese che non privilegia nessuno ma è capace di compassione nei confronti di tutti, che ha attenzione per la mia dignità, che non emana leggi creontee, che non intrattiene relazioni con i gruppi di potere che si sono costituiti al di fuori delle regole della democrazia. Non è vero che sia tanto ovvio? Lo so, ma per ora mi accontento della teoria.
E’ comunque vero che il problema diventa assai complesso quando i diritti riguardano gli aspetti più teorici della mia esistenza, quelli che hanno a che fare, ad esempio, con la mia coscienza, con la mia capacità critica o con il mio senso della morale. Faccio ancora alcuni esempi. Ho il diritto di essere scettico – e di manifestare pubblicamente il mio scetticismo – relativamente a quelle che, per alcuni, rappresentano verità incontrovertibili e sulle quali non è neppur consentito aprire una discussione? Ho il diritto di essere laico, anticlericale, antireligioso? E, ammesso che questi diritti esistano, li posso considerare validi in ogni circostanza o debbo inserire qualche distinzione?
Per quanto mi riguarda, sto sempre cercando di esemplificare, non ritengo che esista un teorico diritto a essere antireligioso, e penso invece che questo diritto emerga solo in particolari circostanze. Se un cattolico – o un musulmano, o un buddista – mi dicono di essere certi dell’esistenza di un essere supremo, di una causa non causata, e di avere acquisito questa certezza a seguito di una improvvisa illuminazione, un evento inspiegabile e meraviglioso, e se si riferiscono a questo evento come al “dono della fede”, non ho assolutamente niente da obiettare, queste affermazioni non suscitano in me alcuna contrarietà. “Fede” è una parola che non mi seduce, anzi, è un termine che mi provoca un forte senso di estraneità, allude a un’esperienza e a una condizione dello spirito che non conosco, non capisco e che molto probabilmente non conoscerò e non capirò mai, tutte cose che non mi danno alcun diritto di critica, a meno che io non voglia mettere in dubbio la sincerità del mio interlocutore. Sia ben chiaro, il fatto che io accetti qualsiasi ammissione o dichiarazione di fede non significa che io ne certifichi la sincerità, è un atteggiamento che discende dalla mia laicità: se dichiarassi che questa ignota illuminazione metafisica, che si colloca ben al di là del cerchio in cui posso esercitare le mie capacità di critica razionale non può esistere, parlerei in nome di una certezza personale, una evidente contraddizione per chi rifiuta di principio di essere portatore di verità dogmatiche. Certo, potrei avere qualcosa da ridire se chi fa professione di fede insistesse molto su una sua presunta esclusività (“il mio è l’unico dio, gli altri sono frutto della superstizione”) perché faccio fatica a non pensare che la casualità della nascita – da questa parte della strada, a Gerusalemme, Cristo è figlio di Dio, dall’altra parte è solo un profeta, possibile che la mia conquista della verità sia un problema geografico? – sia in realtà la sola tangibile espressione della benevolenza divina.
Diverso, molto diverso sarebbe il mio ragionamento se le stesse persone, le stesse brave persone, volessero dimostrarmi di essere giunte alla certezza dell’esistenza di questo essere supremo attraverso l’esercizio della ragione e mi portassero prove che le loro affermazioni sono “razionalmente dimostrate” o “scientificamente vere”. Gli argomenti a favore dell’esistenza di dio sono stati codificati per secoli dai teologi e integrati dai non teologi, tra i quali gli alfieri di un malinteso senso comune. Si dividono generalmente in due categorie principali, gli argomenti a priori e gli argomenti a posteriori. Le cinque vie proposte da Tommaso d’Aquino nel XIII secolo (il motore immobile, la causa non causata, l’argomento cosmologico, l’argomento dei gradi e l’argomento teologico) sono argomentazioni a posteriori molto fragili e piuttosto facili da contestare. Il più famoso degli argomenti a priori, costruito interamente a tavolino, è l’argomento ontologico di Anselmo d’Aosta, noto soprattutto per l’autorità dei filosofi che l’hanno confutato. Altri argomenti noti sono quello della bellezza, quello dell’esperienza personale, quello dei grandi scienziati credenti e quello delle scritture, quest’ultimo capace di mantenere uno strano e in qualche modo incomprensibile fascino su molti credenti.
LA CREDIBILITA’ E IL DIRITTO DI CRITICA
Tutte le prove dell’esistenza di dio possono essere confutate e nella migliore delle ipotesi perdono gran parte della loro supposta credibilità. Di tutti, gli argomenti più fragili sono quelli che cercano le prove dell’esistenza di dio nel Vecchio e nel Nuovo Testamento, libri funestati da errori e da manipolazioni. Da tutto ciò consegue, almeno secondo il mio modesto parere, che l’intento di dimostrare razionalmente l’esistenza di una causa non causata è per lo meno confutabile e sarei costretto a dimostrare tutto il mio scetticismo. In teoria, lo dico per evitare fraintendimenti, potrei andare oltre lo scetticismo e dichiarare che si tratta di menzogne: è prassi, nella nostra cultura che chi afferma che una certa cosa è accaduta, o che più semplicemente che una certa cosa esiste, ha l’onere di dimostrarlo in modo razionale, ubbidendo a regole sulle quali esiste un generale consenso. Se non è in grado di farlo, gli si può dare del bugiardo, cosa peraltro che si tende a fare molto di più con chi dichiara di aver visto un disco volante che con chi afferma di aver incontrato qualche divinità incline alle rivelazioni. E se poi queste persone volessero utilizzare queste loro convinzioni ( o, se volete, queste loro certezze) per organizzarsi politicamente e per proporre modelli di comportamento, norme e leggi direttamente derivati dai loro convincimenti o dai loro libri di culto dovrei per forza dichiararmi anticlericale. E se infine la loro battaglia politica avesse ragione della resistenza di uno stato non sufficientemente laico e le norme proposte diventassero leggi dello Stato, violentando i sentimenti, i principi e i valori – dunque le libertà – di una parte (non importa quanto grande) dei cittadini la mia posizione non potrebbe essere che quella antireligiosa.
Come si può capire, il mio diritto di critica – al quale consegue il mio diritto di essere progressivamente scettico, incredulo, sgradevolmente stupito e infastidito, anticlericale e irreligioso – ha a che fare essenzialmente con la decisione – un tempo impensabile, oggi sempre più frequente – di trasportare il dibattito di uno dei tanti temi della metafisica e della religione sul terreno molto concreto della razionalità. In teoria una simile decisione dovrebbe presentare non pochi elementi di rischio per un credente. La razionalità ha regole precise e chiede che vengano rispettate, quale che sia l’oggetto del contendere. Esistono, ad esempio, argomenti che non possono essere utilizzati nel dibattito e altri che, invece di essere utili alla dimostrazione di una tesi, la privano progressivamente di credibilità.
LA MOLTIPLICAZIONE DEI DIVIETI
Penso dunque che ben poche persone troverebbero qualcosa da ridire se i veti del Magistero cattolico fossero basati sui convincimenti dettati dalla fede, sui dogmi, su un qualsiasi tipo di “Deus non vult” che, al massimo, creerebbe qualche contrasto con le altre “sette” e, nella peggiore delle ipotesi, ci farebbe piombare a capofitto in qualche nuova guerra di religione (un pericolo per il quale non si è mai abbastanza vaccinati). Purtroppo il problema della moltiplicazione dei divieti (il Magistero romano sembra diventato balbuziente, non fa che emettere nuove sentenze di condanna e ha stabilito il principio del “negare per credere”) non ha più agganci con la metafisica (o meglio, non ha più agganci importanti con la metafisica), ma trova la sua giustificazione nella discesa agli inferi del detto Magistero, laddove gli inferi sono rappresentati dai picchi e pendii della razionalità scientifica: insomma, il prefato Magistero vuole combattere quello che considera – e per alcuni versi è – il suo interlocutore più ostile, lo scienziato, usando le sue stesse armi. Il guaio è che, per evitare sorprese, il sunnominato Magistero non ha scelto solo le armi, ha anche imposto le regole, che a dir il vero sono semplicissime: in ogni caso, quella che propone per la discussione è la verità, o meglio la sua verità, non se la prenda chi la pensa diversamente.
Per quello che io so, la scienza è laica e ha orrore per le verità rivelate. In più ha regole molto precise, che dovrebbero essere rispettate e che impongono, a chi vuole proporre le sue verità, rigide scelte di metodo. Malgrado ciò, sulla base di motivazioni che ho il diritto di considerare con assoluto scetticismo, il Magistero cattolico ha imposto al nostro Paese – teoricamente laico – regole assurde e non condivise. Non lo ha fatto elaborando principi religiosi e metafisici, ma scendendo nel campo della discussione scientifica con interventi talora inaccettabili perché irrazionali, talora francamente ridicoli. Vorrei fare qualche esempio per dimostrare le ragioni del mio dissenso e del mio scetticismo, e sottolineando il mio diritto di uomo libero e laico, oltretutto cittadino di un paese laico, a dissentire e a essere scettico.
Mi limito a un solo esempio.
L’INIZIO DELLA VITA
Un terreno nel quale la teologia e la bioetica cattoliche sono particolarmente impegnate è quello dell’inizio della vita personale. Qui, le ragioni per contestare la presunta razionalità del Magistero cattolico sono molto numerose, c’è ampia possibilità di scelta. Si è passati, ad esempio, dall’ipotesi post-zigotica, confermata nel recente Donum Vitae, a quella dell’attivazione dell’oocita e per cancellare le proprie impronte sul terreno si è provveduto a dare una nuova definizione di “zigote”, un tentativo che non rispetta molto l’intelligenza di chi si occupa della materia in modo professionale. Poiché quello dell’inizio della vita personale non è un dogma, il Magistero ha poi dovuto accettare che un certo numero di filosofi e di bioeticisti cattolici presentassero altre e altrettanto credibili ipotesi (attualmente se ne contano 10). Come è possibile indicare, tra queste teorie, quella giusta, l’unica che afferma la verità?
Lo si può fare chiaramente con un atto di fede: basterebbe che un papa, parlando ex cathedra, ci dicesse che dal momento in cui i due gameti, lo spermatozoo e l’oocita, si trovano nello stesso corpo femminile e possono incontrarsi, inizia una nuova vita personale umana alla quale Dio assicura un’anima immortale, che cesserebbe ogni possibilità di discussione e tutti i seri cattolici dovrebbero adeguarsi a questo ulteriore anticipo. Ma non è così: il Magistero cattolico non ha mai stabilito il momento dell’animazione, nei guai eravamo e nei guai siamo rimasti.
E allora? Allora è necessario dare ascolto alle dichiarazioni dei bioeticisti cattolici che cimentano su questi argomenti la propria laicità e affermano di essere arrivati alle stesse conclusioni alle quali è arrivato il Magistero (la vita personale inizia con l’attivazione dell’oocita) quasi per caso, esercitando la propria razionalità e concedendo alle proprie teorie il solido sostegno delle verità biologiche. È così? Siamo tornati a “lo dice la biologia”.
Questa storia della conferma della biologia alle razionali teorie dei bioeticisti cattolici mi ha molto “intrigato” e mi ha in qualche modo costretto a cercar di capire cosa pensano di questo argomento i grandi scienziati che la biologia se la sono inventata, da Claude Bernard in poi.
Chi voglia leggere quanto di meglio è stato scritto in merito al rapporto tra la biologia e la storia della nozione di vita si rivolga al bel libro di André Pichot (Histoire de la notion de vie, ed. Gallimard, 1993). Pichot, citando soprattutto Claude Bernard, conclude che la biologia moderna ignora la nozione di vita, perché una scienza sperimentale non deve dare una definizione della vita. Secondo Pichot – e secondo Claude Bernard – si tratterebbe di una definizione data “a priori” e “il metodo che consiste nel definire prima e poi dedurre tutto dalla definizione data può convenire alla filosofia, ma è contrario allo spirito stesso delle scienze sperimentali”. Ne segue che “basta intendersi sul significato della parola vita per poterla utilizzare ed è illusorio e chimerico (e ancora una volta contrario allo spirito della scienza) cercare di darne una definizione assoluta”. La biologia moderna ignora dunque la nozione di vita e si accontenta di analizzare gli “oggetti” che il senso comune le indicano come “viventi”, e la sua analisi dimostra che essi possiedono un certo numero di caratteristiche fisico-chimiche identiche. La definizione di vita, se mai viene evocata, è riportata all’infinito, come scopo e fine ultimo della biologia. In questo modo, usando un metodo esclusivamente analitico e sperimentale, si è rafforzata l’efficacia e la scientificità del lavoro del biologo: ciò ha comportato una tale “fisicalizzazione” da dare l’impressione che, per rendere scientifica la biologia, sia stato necessario negare ogni scientificità al suo oggetto.
Tutte le discipline biologiche mettono in evidenza la perfetta identità della natura della materia e delle leggi che la regolano sia per quanto riguarda gli esseri viventi che per quanto concerne gli oggetti inanimati: negli esseri viventi ci sono alcune molecole e alcune reazioni biochimiche che le riguardano che oggi non si trovano negli oggetti inanimati, c’è una tale unità di composizione che si può ammettere che le differenze che si riscontrano tra specie diverse, tra individui della stessa specie e nello stesso individuo in differenti momenti della vita non sono sufficienti per alterare l’unità del “fenomeno vivente”. Si delinea così un quadro di “essere vivente in generale” costituito da tutto ciò che di chimico-fisico c’è in comune tra gli esseri viventi e tra essi soltanto. Limitare la specificità del vivente a queste caratteristiche è come negarla, perché la si riferisce a una differenza qualitativamente analoga a quella che esiste tra due oggetti inanimati. Esisterebbe dunque solo un certo numero di oggetti che differiscono tra loro solo per le caratteristiche fisico-chimiche: ci si chiede perché dovrebbero essere divisi in due, piuttosto che in tre o in quattro classi, considerato il fatto che i criteri della ripartizione non sono né chiari né espliciti e si fondano soprattutto sul senso comune, che dice che certi oggetti con certe caratteristiche fisico-chimiche comuni debbono essere definiti come viventi. Ma non si tratta di una scelta della biologia ma piuttosto di un tentativo di giustificare dal punto di vista fisico-chimico la scelta fatta dal senso comune.
Così, la biologia considera la vita come una particolare qualità che compare a partire da un certo grado di complessità dell’organizzazione fisico-chimica e alla quale il senso comune attribuisce un nome specifico. La biologia ritiene che non esista un “fantasma” dentro alla macchina, e che comunque la specificità dell’essere vivente non risiede in quel fantasma. Ma non sa né come né quando la vita emerge dalla materia, né sa se l’emergere della vita ha un ruolo, un significato, una necessità. La biologia capisce che la definizione di essere vivente ha carattere temporale, ma non ha motivi per distinguere tra due esseri viventi temporanei e non ha alcun ruolo nella precisazione di definizioni meramente filosofiche come quella di persona, o di vita personale, o di vita individuale.
Penso che esista un equivoco di fondo dunque, relativamente al ruolo della biologia, che non dimostra e non ha interesse a dimostrare alcunché in questo campo. Penso che alcuni filosofi abbiano scambiato per conferme quelle che non sono altro che precisazioni, risposte a domande specifiche. Un filosofo ritiene che la vita personale abbia inizio nel momento in cui prende origine un processo unico e irreversibile, e il biologo gli dice che quel momento può essere identificato nell’attivazione dell’oocita. Ma un secondo filosofo è convinto che si possa parlare di vita individuale solo dal momento della formazione di un genoma unico, e il biologo punta il dito sull’anfimissi. Come vedete, nessuna verità, solo risposte a quesiti diretti: la verità che i filosofi vorrebbero ascoltare, oggi i biologi non la conoscono (e come dice Pichot, se la conoscessero la riprodurrebbero).
Ritengo che i bioeticisti cattolici siano consapevoli di quanto sia fragile e priva di fondamenta la loro tesi sull’embrione: se così non fosse, non avrebbero tirato in ballo il principio di precauzione, la scialuppa di salvataggio di tutte le filosofie che si basano molto sulla metafisica e poco (o nulla) sulla ragione. Ma, come ha più volte scritto Maurizio Mori, questo argomento non vale per chi condivide la tesi di Maritain che l’embrione non è certamente persona e che crederlo sarebbe un’assurdità filosofica. Dissolto il dubbio, il principio di precauzione non ha motivi per essere applicato. Contro questo modo di giocare dalla parte del sicuro ho letto molti articoli, ma per chi ne volesse leggere solo uno, consiglio “The human embryo and the relativity of biological identity”, di Alex Mauron, Working paper presentato nel 1994 al Progetto della comunità Europea Fertility, infertility and the human embryo.
Potrei fare altri esempi. Potrei parlare dei contorsionismi cattolici sulla fine della vita e sul testamento biologico. Potrei riferirmi alla presa di posizione nei confronti della contraccezione di emergenza, che ha ignorato le uniche pubblicazioni scientifiche che hanno preso in esame il problema dell’effetto della pillola del giorno dopo sull’impianto dell’embrione, continuando così un’assurda campagna denigratoria. Potrei rammentare le chiacchiere ridicole di tal Castellvì (L’Ossservatore Romano, 3 gennaio 2009) secondo il quale le urine della ragazza che prendono la pillola inquinano l’ambiente e sono responsabili della sterilita maschile, in costante aumento in tutto il mondo. Potrei raccontare le contorte vicissitudini della morale cattolica sulle cellule staminali di origine embrionale, che hanno inquinato anche la ricerca moralmente ineccepibile per cooperatio ad malum, però, volendo, in casi estremi… Ma credo che basti così.
Ma quali conclusioni posso trarre da tutto questo?
Temo che sul mio diritto ad avere diritti si sia aperta una discussione, ma personalmente a questa discussione non voglio partecipare perché so che, quali che siano le mie ragioni, il giudizio finale sarà falsato perché i giudici non sono imparziali. Questo equivale, mi sembra evidente, a dichiararmi anti-religioso, perché la religione cattolica sta suggerendo allo stato le regole secondo le quali io sarò costretto a vivere. Eppure io non desidero affatto usare di questo mio diritto, e la ragione è che non identifico la religione nel Magistero cattolico.
In realtà, questo scritto è un appello, un appello che rivolgo a tutti quei cattolici che hanno a cuore la mia libertà altrettanto quanto io ho a cuore la loro. Una lettera per i cattolici laici, non vedo motivi per indirizzarla ai protestanti, mi sento di firmare la maggior parte dei loro documenti che riguardano i problemi dei quali ho scritto. La ragione per cui la scrivo riguarda il mio desiderio di discutere con loro, prima ancora del problema dei miei e dei loro diritti, quello dei valori che abbiamo in comune. Ne suggerisco uno, nella certezza che si tratti di un valore condiviso: la compassione. Forse ne troveremo altri, cerchiamoli insieme. Non so se sono ancora una volta le chimeriche isole per stranieri morali, lontane e irraggiungibili, so che da qualche parte c’è un posto dove possiamo incontrarci se, uso parole del vostro libro, siamo uomini di buona volontà.
Carlo Flamigni