I vostri contributi, le esperienze e i pareri della nostra rubrica “L’anagrafe del buon dottore”.
La lettura dell’articolo “Chi ha paura del paziente esperto?” mi ha “ospitata” in un luogo nuovo, o comunque rassicurante: quello nel quale le riflessioni e i conseguenti comportamenti si alimentano in modo bidirezionale tra medico e paziente. Grazie!
Ho così condiviso i contenuti dell’articolo, e in particolare ho colto alcuni aspetti.
La diversità non tanto del caso, quanto della persona e di come questa viva il caso.
Stimoli interessanti che da entrambe le parti possano arricchire non solo il vissuto personale e professionale, ma anche il risultato di fasi o finale.
La dinamicità del caso, inizialmente simile ad un altro, che si trasforma rispetto all’altro caso per una serie infinita di variabili.
La consapevolezza da affrontare insieme.
Il tempo come importante investimento iniziale con impatto logico positivo sull’efficienza e quindi sull’economia individuale e generale.
Tutti aspetti che hanno un comune denominatore: il valore della relazione, nella quale la fiducia –che io considero reciproca- ha un ruolo decisamente fondamentale.
Parlando di valore della relazione parliamo anche di sintonia, empatia, motivazione, slancio e forza emotiva, senza i quali guarire non è certo impossibile, ma è più difficile…
Recentemente ho visto un servizio di una visita che Nelson Mandela aveva fatto a degli ammalati, in particolare a un ragazzino affetto da tumore. L’aveva rassicurato sulla sua forza interiore che doveva mettere in campo e che lui aveva sicuramente, ricordandogli che la medicina da sola non ce la poteva fare a guarirlo.
Ricordo anche che al primo tentativo di asportarmi le micro-calcificazioni al seno per evitarmi l’intervento chirurgico mi batteva così forte il cuore su quel lettino su cui ero stesa a pancia in giù -con un seno inserito in un buco sotto il quale due lastre collegate a un computer me lo schiacciavano completamente- che mi sembrava mi uscisse dalla schiena.
Il medico se ne accorse, fermò tutti e mi mise la sua mano sulla schiena.
Sembrava che la sua mano coprisse tutta la mia schiena come una coperta, e mentre lo faceva mi spiegò tutto ciò che avrebbe fatto e perché, e tutto ciò che non avrebbe potuto fare se avessi continuato con quella agitazione e perché. Mi rassicurò così tanto che mi affidai a lui certa di farcela.
Poi l’intervento me lo fecero comunque, ma io non ho mai dimenticato quel medico e quando lo ritrovo ai controlli … sono felice e tranquilla.
Nel concetto di relazione, trovo molto bella anche l’immagine del medico che “raccoglie” e si arricchisce dal paziente attraverso esperienze “uniche e irripetibili” di malattia, perché determinate da ognuno di noi o da come si vive l’accadimento, e da ciò che ti porti dietro con esso.
Quante volte ho pensato a cosa e in quale momento si fosse scatenato un mio male, quello che mi ha cambiato la vita, e che, paradossalmente, mi ha anche restituito qualcosa di positivo: essere cresciuta, più ricettiva, più sensibile, più capace di ascoltare…. e non solo le parole….
In altri termini, sarebbe molto interessante capire, sapere, conoscere la causa o le concause che hanno portato il tuo corpo a reagire in un determinato momento e in un determinato modo, cioè con la malattia, forse … sfogandosi, o forse facendoti capire che ti devi fermare, riflettere, cambiare vita.
Imparare a sentire e ad ascoltare il proprio corpo potrebbe essere anche una forma di prevenzione o di anticipazione dell’evoluzione della malattia.
Nella relazione c’è anche un altro aspetto che deve essere considerato parlando di salute: il dolore fisico, oppure un malessere mentale con impatto sul fisico.
Il dolore fisico dipende molto anche dall’aspetto psicologico, che deriva dalla forza di sostenerlo, dalla consapevolezza di ciò che deve essere affrontato, dalla fiducia nel medico, caratteristiche queste della relazione.
Nel momento in cui il paziente conosce cosa deve affrontare, quando egli si deve aspettare una soglia di dolore più elevata del fastidio, e per quanto (solitamente si tratta anche di pochi secondi) ha una reazione “corporea” diversa e riesce a collaborare maggiormente (ad esempio, magari stando immobile).
Al contrario, il mutismo del medico non solo agita, ma provoca anche reazioni magari spropositate perché crea paura di subire… nell’ignoranza, o di non essere in grado di sostenere l’incognita.
Per malessere mentale intendo invece tutte quelle sensazioni che portano, attraverso l’emotività, a stare male.
Pensiamo ad esempio a dei macchinari chiusi per tac o risonanze che creano quelle sensazioni di claustrofobia.
Ricordo bene una risonanza con contrasto durata quasi mezz’ora, per la quale il corpo era completamente inserito nel macchinario e dove, a causa di rumori forti e amplificati, mi avevano messo anche delle cuffie, nonché dato in mano un pulsante per chiamare eventualmente mi fossi sentita male o a disagio: sono entrata –ovviamente sdraiata- ad occhi chiusi che non ho mai aperto fino a che sono stata certa che il mio corpo fosse interamente fuori dal macchinario.
E’ anche necessario considerare che una soluzione “medica” rappresenti un superamento importante per il paziente, a prescindere dal livello di gravità.
E’ importante perché il pre e il post per il paziente rappresentano due suoi comportamenti diversi, due suoi stili di vita diversi.
In altri termini, prima del fatto si seguiva un certo tipo di vita, l’accadimento di salute è l’intervallo (quando fortunatamente è possibile…) oltre il quale il nostro approccio cambia, più o meno a seconda della gravità.
Pertanto il medico incide sulla nostra vita, non solo a livello di salute per l’intervento che opera e quindi durante “l’intervallo” menzionato, quanto per la conseguenza dell’intervento operato che condiziona la continuità della vita, più positiva-poco positiva-indifferente-un po’ danneggiata-danneggiata.
Oltre all’intervento “centrale” del medico, infatti anche il pre e il post sono due importanti momenti di vita da condividere.
Inutile dire che anche il modo di relazionarsi incide sull’aspetto psicologico e quindi sulla forza che una persona mette in campo nell’affrontare un problema di salute.
Da un lato abbiamo il medico rassicurante e interessato al paziente, dall’altro il paziente che ascolta, segue e, anziché agitarsi o assumere comportamenti indisponenti, pone tutte le domande necessarie a quella conoscenza minima che gli permettono di agire con coscienza e umiltà. Ciò sarebbe auspicabile.
Altro aspetto interessante, tenuto per ultimo non certo per importanza, è il costo per il singolo che si riflette sulla comunità.
A volte giri in continuazione alla ricerca di un intervento adeguato a te: ti sembra magari di aver trovato la strada giusta e il medico giusto, e poi, al contrario, ti ritrovi in un altro momento a rimpiangere il fatto di non aver aspettato, di aver sprecato tempo e denaro o, se hai sprecato “solo” il tempo (che forse è più importante del denaro…), ti trovi poi in una situazione peggiore perché aggravata e quindi ti ritrovi a dover programmare un altro tempo “x” per rimettere a posto la tua situazione e a dover spendere magari anche di più di quello che avresti speso se avessi incontrato prima la strada giusta e il medico giusto.
Non vorrei essermi espressa in modo un po’ contorto, ma tutto ciò per dire che l’azione del paziente e quella del medico impattano notevolmente a livello economico, dove “lo spreco” di ognuno (anche non intenzionalmente, ma per incompetenza o perché si ignora) fa la sua parte sulle risorse messe a disposizione per la comunità, e si contrappone al significato di “sinergia”, che io intenderei anche proprio tra il medico e il paziente.
Come dice l’autore dell’articolo, si ascolta, si comprende, si vive o meglio si condivide un fatto, una malattia. Certo con posizioni diverse, ma affini nella sostanza di affrontare per risolvere, e riportare quel corpo a una dimensione iniziale, o meglio rinnovata, contestualizzata.
D’accordissimo sul fatto che la conoscenza da parte del paziente è una ricchezza ai fini dell’obiettivo comune.
E dato che non sempre la situazione finanziaria ti permette di intervenire dove c’è il meglio e quando vuoi (…. sempre supposto che tu sappia dove sia “il meglio”….. ), l’approccio sinergico è essenziale, così come la volontà e lo sforzo di trovare la via più adeguata, in termini di tempo-risorse.
Grazie dell’attenzione verso una professione che ritengo bella e ricca, e che ognuno di noi incontra spesso nella vita…
Emilia Lucia Barone