Secondo il terzo rapporto Agromafie e Caporalato (2016) realizzato da FLAI-CGIL, più di 400 mila persone in Italia sono vittime di sfruttamento sul luogo di lavoro, per un giro d’affari di 16 miliardi di euro annui. La nuova “Legge contro il caporalato” (Legge 29 ottobre 2016, n.199) introduce nuovi strumenti repressivi nei confronti di chi mette in atto questo tipo di rapporto di lavoro. Ma secondo l’attivista Yvan Sagnet, leader del primo sciopero dei braccianti stranieri contro i caporali in Puglia, nel 2011 e Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica, non è abbastanza: “i lavoratori hanno ancora paura di denunciare e non conoscono i propri diritti”.
di Giulio Casilli
In Italia più di 400 mila persone sono soggette a sfruttamento, un fenomeno che coinvolge italiani e stranieri, da Nord a Sud, per un giro nero di affari che si aggira complessivamente attorno ai 16 miliardi di euro. A questi dati, forniti dal terzo rapporto Agromafie e Caporalato (2016) realizzato da FLAI-CGIL, vanno poi aggiunte tutte quelle forme di sfruttamento che spesso operano legalmente all’ombra delle agenzie interinali di lavoro.
Tra le varie forme di sfruttamento presenti nello Stivale, spicca il cosiddetto “caporalato”: un sistema di organizzazione del lavoro (soprattutto agricolo, ma non solo), operato da soggetti, spesso legati a organizzazioni criminali, che reclutano lavoratori alla giornata e li trasportano sui campi o nei cantieri edili per metterli a disposizione di un’impresa o altro datore di lavoro. Da novembre 2016 è in vigore la Legge 29 ottobre 2016, n.199, ribattezzata “Legge contro il caporalato”, che promette di facilitare la repressione di questo fenomeno attraverso la previsione di punizioni più severe per chiunque si renda, a vario titolo, responsabile di queste condotte distorsive del mercato del lavoro e lesive dei diritti della persona. Ma è sufficiente?
Vittime del caporalato
I lavoratori che accettano di sottostare alle condizioni del caporalato sono principalmente persone in grande difficoltà economica e immigrati irregolari senza permesso di soggiorno. Sono sottoposti a lavori faticosi, con turni molto lunghi e salari molto bassi; vivono spesso in accampamenti, veri e propri ghetti lontani dai centri abitati, dalle condizioni igieniche precarie e sono molto spesso vittime di intimidazioni, maltrattamenti e abusi.
Nell’articolata organizzazione del caporalato sono presenti diverse figure, la principale delle quali è quella del “caporale”, colui che procura la manodopera e incassa la paga dei lavoratori, lucrando sulla differenza tra quanto percepito dall’impresa e quanto da lui effettivamente consegnato ai lavoratori stessi. La sua funzione non sempre si esaurisce col reclutamento della manodopera, talvolta infatti il caporale sovraintende e controlla i lavoratori durante lo svolgimento delle loro mansioni imponendo orari e ritmi di lavoro, spesso con comportamenti minacciosi e violenti.
La tutela prima della Legge, 29 ottobre 2016, n.199
Nel 2011 è stato introdotto nel Codice penale italiano l’articolo 603-bis che prevede e punisce il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. Collocato tra i delitti contro la persona e, in particolare, tra i delitti contro la libertà individuale, il reato era punito con la pena base della reclusione da cinque a otto anni e con la multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato. La fattispecie complessa descritta dall’art. 603-bis prevedeva e puniva, salvo che il fatto costituisse più grave reato, lo svolgimento di un’attività organizzata di intermediazione, reclutando manodopera o organizzandone l’attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento, mediante violenza, minaccia o intimidazione, approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori. La condotta, per essere sanzionata, doveva quindi potersi configurare nell’esercizio di un’attività svolta mediante un’organizzazione – anche minima – di mezzi e/o di persone, difficilmente riscontrabile in episodi singoli e, magari, isolati. In assenza di una definizione legislativa di “intermediazione”, la congiunzione disgiuntiva usata dal legislatore – reclutando manodopera o organizzandone l’attività lavorativa – aveva inoltre posto alcuni importanti problemi intrepretativi. Inoltre, ai fini della configurazione del reato ex 603-bis non era sufficiente la sussistenza dello “sfruttamento” – tipizzato dalla norma incriminatrice al ricorrere di una o più circostanze – ma era necessario l’ulteriore elemento dell’uso di violenza, minaccia o intimidazione da parte dell’autore del reato; restando escluse dalla fattispecie le attività poste in essere senza ricorso a dette modalità, come nel caso di operai “consenzientemente” sottopagati.
Le principali novità della nuova legge
La nuova legge in materia di contrasto all’intermediazione illecita e allo sfruttamento del lavoro interviene, in primis, sull’articolo 603-bis del codice penale, nel tentativo di semplificare e di agevolarne l’applicazione, eliminando dalla fattispecie base la previsione del necessario uso di violenza, minaccia o intimidazione ai fini della configurazione dello sfruttamento – prevedendo di conseguenza una cornice edittale inferiore: reclusione da uno a sei anni e multa da 500 a 1.000 euro – e semplificando alcuni indici di sfruttamento.
Viene introdotta la responsabilità del datore di lavoro che si avvalga di questo tipo di manodopera – a prescindere dall’attività di intermediazione, quindi dell’eventuale responsabilità del caporale – e si introduce altresì la responsabilità degli enti (art. 25-quinquies D.lgs. n.231 del 2001).
Si introduce l’obbligo di arresto in flagranza di reato e la confisca obbligatoria, sia in caso di condanna che di “patteggiamento”, delle cose che sono servite a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto o il profitto. I proventi delle confische sono assegnati al Fondo Antitratta, che viene esteso anche alle vittime del delitto di caporalato.
Viene inoltre rafforzata l’operatività della Rete del lavoro agricolo di qualità, già attiva dal 1 settembre 2015, che dovrebbe raccogliere e certificare le imprese più “sane” e virtuose e del settore.
Infine, si prevede un maggior coinvolgimento delle amministrazione statali nella vigilanza e nella tutela delle condizioni di lavoro nel settore agricolo, attraverso la predisposizione di un piano di interventi congiunto volto a migliorare le condizioni di svolgimento dell’attività lavorativa stagionale di raccolta dei prodotti agricoli.
Art. 603 bis c.p.: dentro la legge
Vecchio testo | Nuovo testo |
Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque svolga un’attività organizzata di intermediazione, reclutando manodopera o organizzandone l’attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento, mediante violenza, minaccia, o intimidazione, approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori, è punito con la reclusione da cinque a otto anni e con la multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato.Ai fini del primo comma, costituisce indice di sfruttamento la sussistenza di una o più delle seguenti circostanze: 1) la sistematica retribuzione dei lavoratori in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato; 2) la sistematica violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie; 3) la sussistenza di violazioni della normativa in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro, tale da esporre il lavoratore a pericolo per la salute, la sicurezza o l’incolumità personale; 4) la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, metodi di sorveglianza, o a situazioni alloggiative particolarmente degradanti.Costituiscono aggravante specifica e comportano l’aumento della pena da un terzo alla metà: 1) il fatto che il numero di lavoratori reclutati sia superiore a tre; 2) il fatto che uno o più dei soggetti reclutati siano minori in età non lavorativa; 3) l’aver commesso il fatto esponendo i lavoratori intermediati a situazioni di grave pericolo, avuto riguardo alle caratteristiche delle prestazioni da svolgere e delle condizioni di lavoro |
Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da 500 a 1.000 euro per ciascun lavoratore reclutato, chiunque: 1) recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori; 2) utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione di cui al numero 1), sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno.Se i fatti sono commessi mediante violenza o minaccia, si applica la pena della reclusione da cinque a otto anni e la multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato.Ai fini del presente articolo, costituisce indice di sfruttamento la sussistenza di una o più delle seguenti condizioni: 1) la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato; 2) la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie; 3) la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro; 4) la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.Costituiscono aggravante specifica e comportano l’aumento della pena da un terzo alla metà: 1) il fatto che il numero di lavoratori reclutati sia superiore a tre; 2) il fatto che uno o più dei soggetti reclutati siano minori in età non lavorativa; 3) l’aver commesso il fatto esponendo i lavoratori sfruttati a situazioni di grave pericolo, avuto riguardo alle caratteristiche delle prestazioni da svolgere e delle condizioni di lavoro. |
La testimoninanza di Yvan Sagnet, dai campi di Puglia al Quirinale
La nuova legge è “sicuramente un passo in avanti rispetto alla precedente, ma non è la legge che desideravo”, spiega a Vox Yvan Sagnet, nato in Camerun e leader del primo sciopero dei braccianti stranieri contro i caporali e gli imprenditori agricoli nelle campagne di Nardò in Puglia, nel 2011. E’ laureato in Ingegneria delle Telecomunicazioni al Politecnico di Torino ed è autore di Ama il tuo sogno e Ghetto Italia (Fandango). Il 12 novembre 2016 è stato nominato Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica dal Presidente Mattarella, “per il suo contributo all’emersione e al contrasto dello sfruttamento dei braccianti agricoli”.
Se è vero che l’introduzione di nuovi strumenti repressivi per la lotta al caporalato è un segnale positivo, è anche vero, secondo Sagnet, che non si può contrastare efficacemente questo fenomeno senza intervenire adeguatamente sul fronte della prevenzione. Se il caporalato in Italia continua a trovare terreno fertile, infatti, è perché “non si denuncia abbastanza. Nei cinque anni successivi all’introduzione del reato ex art. 603-bis del codice penale (2011, ndr), soltanto 500 lavoratori hanno denunciato i caporali, un numero pari allo 0,1% delle vittime di caporalato. Dubito che le novità legislative introdotte motiveranno più lavoratori a farlo”. La nuova legge, infatti, pur punendo in maniera più adeguata il fenomeno, non predispone strumenti e misure atti a stimolare “un sussulto” di coscienza e libertà nelle persone vittime di sfruttamento, finendo così per non agevolare l’emersione del fenomeno e, dunque, la punibilità dello stesso.
Ad influire negativamente sulla situazione delle vittime di caporalato sono anche la ghettizzazione e le difficoltà linguistiche, ostacoli alla conoscenza delle leggi in vigore e, quindi, all’esercizio dei propri diritti. Non solo: “sono numerosi i motivi che inducono i lavoratori a preferire il silenzio anziché denunciare lo sfruttamento alle autorità competenti: la paura di perdere l’unica fonte di guadagno, la paura di essere espulsi perché senza permesso di soggiorno, la paura di vedere la propria denuncia restare chiusa in un cassetto per lungo tempo; il tutto, tra l’altro, in assenza di qualsiasi forma di tutela delle vittime dopo la denuncia”, sottolinea Sagnet. E la Rete del Lavoro Agricolo di Qualità, principale strumento preventivo previsto dalla legge, secondo l’ingegnere camerunense non contiene elementi significativi di contrasto al lavoro nero e allo sfruttamento del lavoro: “Avrei introdotto lo strumento della Certificazione Etica d’Impresa: un sistema di tracciabilità dell’intera filiera agricola volto a garantire che non vi siano forme di sfruttamento del lavoro lungo tutta la catena che conduce il prodotto dai terreni agricoli agli scaffali dei negozi alimentari; un po’ come avviene con la certificazione biologica per tutelare il prodotto e il consumatore”.
Sagnet sottolinea come i lavoratori siano spesso “vittime dei tagli ai costi di produzione” operati dai contadini e dalle imprese medio-piccole anche “a causa dell’incidenza negativa che hanno, lungo tutta la filiera agricola, i prezzi imposti dai principali attori del mercato della grande distribuzione”.
Ciò che appare ancora mancare, in conclusione, è uno strumento che consenta ai lavoratori di rivendicare dignità e rispetto per la propria persona e per il proprio lavoro. Uno strumento che consenta loro di “non togliere il cappello” dinanzi al caporale, proprio come Giuseppe Di Vittorio insegnò a fare ai braccianti di Cerignola, in quella stessa Puglia dove Sagnet organizzò il primo sciopero dei braccianti stranieri contro i caporali e gli imprenditori agricoli; era il 2011 e non esisteva una legge ad hoc contro il caporalato, percepito ancora come fenomeno marginale e poco conosciuto. Da allora sono stati fatti numerosi passi in avanti, tanto sul fronte repressivo quanto su quello dell’attenzione sociale, ma resta ancora aperta la sfida più grande: riuscire a liberare definitivamente i lavoratori dal ricatto della povertà e della disperazione. E per questo, purtroppo, non basta (nemmeno) una denuncia.