Esiste un modello economico alternativo a quello attuale, capace di parlare il linguaggio fecondo e “curativo” delle donne?
Esiste, secondo Genevieve Vaughan, studiosa di semiotica, autrice di quella “gift economy”, economia del dono, che tanto ha fatto e fa discutere.
Uno dei suoi libri più noti, Per- donare, sta per essere ripubblicato in Italia da una nuova casa editrice digitale, VandA. e- publishing: una start up tutta al femminile, un modello di quella intraprendenza e proattività dell’”altra metà del cielo”, considerata da molti economisti una delle risorse fondamentali per il nostro futuro.
Per-donare è una critica fondamentale, appassionata, rigorosa delle economie classiche, destinata a stravolgere il nostro sguardo sull’economia.
Ne anticipiamo l’introduzione, a cura della stessa Vaughan. Buona lettura.
http://www.vandaepublishing.com/
Per-donare
Di Genevieve Vaughan
I tempi difficili in cui ho scritto questo libro adesso appaiono come “pacifici” in confronto al presente e alle guerre che il mio paese ha intrapreso dopo l’11 settembre 2001. Ora negli USA, infatti, abbiamo un governo in cui si può facilmente vedere come i valori del patriarcato e del capitalismo sono intrecciati fra loro tanto da essere “la stessa cosa”. Questo patriarcato capitalista agisce per il privilegio dei pochi e il danno dei molti secondo le molle che ho cercato di descrivere in questo libro. Infatti il paese nell’insieme, funziona come se avesse un’identità machista collettiva, che sfida tutti gli altri paesi come un bullo adolescente che vuole mostrarsi “più uomo” degli altri. I valori che le femministe hanno tanto criticato, di sopruso, di gerarchia e di competizione, si estrinsecano nel capitalismo e funzionano come motivazione all’accumulazione. Premiano la presa del potere e puniscono la debolezza. Se non vogliamo lasciare il campo libero a questi valori dobbiamo capire come si possono sviluppare. Se pensiamo che sono dovuti alla cattiveria insita negli individui, o nelle etnie, o nelle nazioni o anche nei generi, non riusciremo mai ad affrontarli in modo efficace. Infatti sono talmente pervasivi da sembrare “naturali” e se non lo sono ci deve essere qualche altra cosa d’importante sotto che non stiamo vedendo. Urge capire questo qualcosa ora perché ogni giorno che passa la situazione diventa più grave, la gente soffre di più, l’ambiente si degrada e dietro a una facciata di menzogne il controllo dei pochi sui corpi e le menti dei molti si estende.
Il femminismo ci ha fatto vedere il legame fra il personale e il politico. Spesso la stessa cosa succede ai due livelli, lo stesso schema si ripete. Questo vuol dire che possiamo trovare dentro di noi degli indizi di quello che succede sul piano della collettività. Vuol dire anche che occorre una presa di coscienza e perfino una rivoluzione interiore per poter affrontare le cause dei terribili problemi che ci stanno davanti. Non intendo dire questo in modo individualistico, ma voglio suggerire che ci sono strutture sia esterne che interne che vengono dalla stessa fonte. Noi le vediamo come parte di noi e come “natura umana” ma sono invece strutture artificiali che funzionano in modo parassitario sia sugli individui che sui gruppi. Questa è un’ipotesi radicale e richiede una disponibilità profonda a rinunciare ai preconcetti e pensare in modo diverso. Infatti è difficile per l’ospite riconoscere il parassita che sta dentro la propria mente e dentro la società in cui vive. Però se il comportamento pazzesco delle nazioni e dei singoli non è biologicamente determinato, è talmente pervasivo e pericoloso che deve venire da qualcosa di questo genere. Ha le sue radici anche nel punto di vista patriarcale che vive nell’Occidente da secoli nell’accademia, nel mercato, nella religione, nei governi.
Dobbiamo sforzarci di vedere oltre questo punto di vista e riconoscere un’alternativa già esistente. Vedere l’alternativa può anche mettere in risalto le stesse strutture parassitarie. Se non vediamo chiaramente quello che veramente succede non potremo mai liberarcene.
In questo libro cerco di mostrare che l’economia del dono è un’alternativa già esistente alle strutture patriarcali. Propongo di prendere le donne come norma, e la socializzazione all’identità “maschile” come una deviazione da quella norma, seguendo un modello di genere creato socialmente a danno di tutti (donne, bambini e uomini). Infatti penso che l’economia del mercato è basata sul genere. Alcuni anni fa le femministe hanno rivelato la grande quantità di lavoro non retribuito che fanno le donne in casa. Questo lavoro gratis, hanno detto, aggiungerebbe il 40 per cento al prodotto nazionale lordo negli Stati Uniti (di più in altri paesi) se fosse monetizzato. La risposta di molte donne a questo dato è stato di pretendere che il lavoro delle casalinghe fosse pagato. Io dico invece che si debba considerare questo lavoro gratis come un tipo di economia diverso, allargando la nostra definizione al di là dell’“uomo economico” per includere l’economia del dono come un’altra modalità di distribuzione (e quindi anche di produzione) che esiste già nella vita individuale e anche in modo occultato, nel mondo sociale, come fonte di profitto, come beni comuni non ancora mercificati, come l’acqua e l’aria, come le tradizioni del sapere comune. Queste aree di doni comuni sono rese più visibili adesso proprio dalla globalizzazione che le privatizza e le assimila al mercato, impedendo loro di far parte del mondo nonmonetizzato che soddisfa i bisogni gratis.
L’economia nascosta del dono si deve identificare con le donne in primo luogo perché sono loro che la devono praticare come madri, giacché i bambini piccoli sono incapaci di scambiare qualcosa per costringere gli altri a soddisfare i loro bisogni. Qualcuno deve dare a loro gratis. Questa economia del dare viene screditata da tutti perché il contesto del mercato e del patriarcato la rende ardua ed è spesso più facile assecondare l’oppressore piuttosto che cercare di farlo cambiare.
Anche se gli antropologi occidentali, studiosi del dono nelle società indigene, in genere non legano la logica del dono con la logica materna, noi lo dobbiamo fare in modo programmatico per poter connettere il femminismo con le società indigene e con tutti quei movimenti che cercano di creare un mondo migliore. Infatti le risoluzioni dei problemi sociali possono essere viste come doni a un livello generale e sono questi i doni che l’attivismo cerca di dare. La pratica del dono è stata esclusa, come modello interpretativo, da molte aree della vita. Con questo testo, spero di essere riuscita a reinserirla dove essa è stata eliminata: fra l’altro, nello studio del linguaggio, l’educazione, la comunicazione, i mass media e nella critica della privatizzazione che trasforma i doni in merci. Ci sono anche fenomeni come il free software che sono visti però sempre in termini di scambio pre-capitalistico da studiosi ancora patriarcali. (Per esempio vedono il riconoscimento o la reputazione come pagamento per il dono di migliorie nel software che si dà gratis.) Di fatti senza una teoria del dono unilaterale, è più facile che esperimenti di questo genere vengano cooptati dal mercato. Per di più la scarsità voluta dal mercato per escludere alternative, rende più difficile il dare gratis. Come spesso succede, la “colpa” (altro elemento dell’economia di scambio, come richiesta di pagare per i misfatti) viene data alla vittima e si pensa che sia il dare gratis a essere un comportamento irrealistico, quasi “ammalato”. Invece dobbiamo capire che è il contesto basato sullo scambio che rende l’economia del dono difficile, ed è il contesto che dobbiamo cambiare.
Non voglio anticipare troppo i temi del libro ma vorrei almeno menzionare che non penso questa sia una teoria “essenzialista” ma che il dono ha una sua logica, che è la logica umana del comunicare, da chiunque viene praticata. Il fatto che gli uomini rinuncino a questa logica come identità di genere, cambia la loro pratica costringendola verso il dominio, fa sì che essi considerino la violenza come un sostituto del dare e li fa spesso colpire fisicamente o moralmente per fare del male e dominare invece che dare per nutrire. La violenza stabilisce un rapporto di gerarchia con l’altro non un rapporto di mutua inclusione come invece fa il dono. Dovremo socializzarci tutti verso l’economia del dono e i valori che ne derivano in modo di arrivare a costruire una società che non sia volta all’autodistruzione e alla distruzione del pianeta. Quello materno è un processo che funziona a molti livelli e in modi diversi. Non è uno stato compiuto. Se fosse uno stato, o una serie di stati e ne facessimo astrazione, forse troveremmo una “essenza”. Invece siccome è un processo con delle connessioni al suo interno, quando ne facciamo astrazione, troviamo una logica, la logica del dono.
La logica dello scambio è invece l’opposto del dono, e infatti funziona sul non-donare. Ogni merce viene cancellata, come dono, dallo scambio con un valore uguale. Le equazioni dello scambio formano la base del nostro pensiero e della nostra moralità auto riflessivi. Per questa ragione non vediamo il dono che sottende sia al mercato che alla vita stessa e le nostre interpretazioni del mondo sono sempre sfasate.
Quello che le donne hanno in comune non è un’essenza o un istinto verso la cura dell’altro. Esse hanno, invece, in comune il fatto che non sono state fatte diventare uomini. L’aver cura dell’altro è la base della normale logica dell’umano, anche per gli uomini. Quello che dobbiamo investigare è perché molta gente, specialmente uomini NON si comporta così. Dobbiamo rigirare la questione. È l’egoismo non l’altruismo, ciò di cui dobbiamo renderci conto.
È da molti anni che lavoro su queste idee. Già nel 1964, quando sono venuta in Italia come ragazza americana appena sposata con un professore italiano, Ferruccio Rossi-Landi, sono
stata messa in contatto con delle idee che mi hanno capovolto il mondo. Ferruccio fu invitato a Bologna a una riunione di gente che voleva fare una rivista in cui si applicava l’analisi del denaro e della merce di Marx allo studio del linguaggio. Sono stata invitata anch’io e questa idea mi ha completamente affascinata. La rivista non è mai stata fatta ma Ferruccio ha scritto molte cose su questo argomento. L’ho studiato ache io e ancora continuo a studiarlo adesso dopo 40 anni. Attraverso gli anni ho sviluppato un approccio diverso da quello di Ferruccio. Mentre lui vedeva il linguaggio “come lavoro e come mercato”, io lo vedo soprattutto come dono. Il mercato, e lo scambio che è la sua logica, sono un derivato del dono, una sua distorsione che cambia il dare nel non dare, l’implicazione del valore dell’altro nella misurazione del valore di scambio. In questo il mercato crea una nicchia economica per l’identità maschile formata in contrapposizione a quella della madre nutrice. Rende l’abbondanza di cui necessitano le società che utilizzano
l’economia del dono un nesso sociale, una possibilità solo per pochi nelle società “avanzate”. I valori della dominanza soliti nel patriarcato possono dispiegarsi nel mercato in modo più sottile ma forse anche più micidiale. È per questo che penso da molti anni che non solo il capitalismo ma lo stesso mercato e il patriarcato sono cresciuti insieme e devono essere anche smantellati insieme.
Non è solo il mercato libero e globalizzante a essere il problema; anche un mercato cosiddetto “giusto” crea rapporti umani distorti e nocivi. È tossica la stessa logica dello scambio che pratichiamo tutti i giorni quando vendiamo e compriamo. Distorce le nostre soggettività e fa sì che interpretiamo tutto a sua immagine. Penso infatti che le varie idee che abbiamo della giustizia risentono molto della logica dello scambio, nel senso che stabiliamo un giusto pagamento per un crimine. Questo lo abbiamo visto recentemente come giustificazione delle invasioni prima dell’Afghanistan e poi dell’Iraq, in rappresaglia all’attacco dell’11 settembre come se si potesse stabilire una equazione fra danni (quantificando così l’inquantificabile). Una simile espressione dell’equazione dello scambio c’è stata durante la Guerra Fredda con la produzione di armi nucleari nella escalation verso l’infinito. Gorbaciov ha messo fine a questo con il dono del disarmo unilaterale, cedendo il passo, salvandoci forse tutti almeno fino al nuovo round di produzione delle armi nucleari da parte degli USA, aspirante nuovo padrone assoluto del mondo. Allargando così il campo del dono alla comunicazione e all’economia il materno si colloca in un ambito molto più largo, lontano dalla famiglia in quanto tale. I fili che sono stati spezzati tra il materno e il resto della vita possono essere riallacciati e si può vedere il mercato come comunicazione alienata, derivato da un uso secondario e distorto del nominare dovuto alla denominazione bipolare del genere. Questa denominazione si propaga a tutti i livelli e diventa una contraddizione del materno che si fa nutrire da esso in modo parassitario. Questo, credo sia la radice nascosta dei grossi problemi che ci assillano.
Vorrei aggiungere che penso che certi eccessi del postmodernismo sono dovuti al fatto che l’ordine simbolico che in esso sembra reggere i rapporti sociali è basato ancora su di un’interpretazione patriarcale dell’agire simbolico. Il riportare la pratica del dono come chiave interpretativa del simbolo fa sì che i rapporti che costituirebbero un ordine di dominanza diventino visibili fondamentalmente come rapporti di soddisfazione di bisogni a vari livelli. Per questo comporterebbero una motivazione social-altruista non un moto di dominanza astratta o concreta che sia. Questa idea potrebbe riportare il simbolico dalla Legge del Padre alla pratica materna e, nel ridare il linguaggio e la comunicazione alle donne, lo libererebbe dal mercato. Nel 1983, dopo il mio divorzio con RossiLandi, mi sono trasferita di nuovo negli Stati Uniti, dove ho cercato di praticare il dono, creando una fondazione per il cambiamento sociale in cui molti progetti innovativi sono stati iniziati e messi in atto da donne di etnie e nazioni diverse. Parlo brevemente di questa fondazione nell’ultimo capitolo del libro. Ho dovuto chiuderla nel 1998 avendo già speso quasi tutto il denaro che avevo ereditato. Una piccola parte di queste attività continua ancora, ma penso che la cosa più importante che io possa fare adesso è di far conoscere l’idea dell’economia del dono come paradigma per una nuova società e come base dalla quale criticare a fondo il mercato e il patriarcato capitalista. Dopo aver praticato il dono in questo modo per tanti anni ho finalmente scritto questo libro che è stato pubblicato negli USA nel 1997.
Forse i lettori italiani lo troveranno troppo insistente su concetti che per loro sono familiari, come quello dello sfruttamento internazionale. Può sorprendere gli italiani infatti quanti dei miei concittadini neanche immaginano che esiste questa realtà alla quale peraltro è dovuto il relativo benessere di molti di loro. Sono grata al fatto di aver vissuto in Italia per molti anni perché questo mi ha dato una prospettiva internazionale più ampia.
Recentemente con i miei collaboratori abbiamo organizzato un convegno internazionale sul dono con la partecipazione di donne da tutto il mondo, che hanno presentato le loro idee su questo tema. Donne indigene di vari paesi, donne attiviste, accademiche e non, hanno offerto le loro prospettive sul dono da molti punti di vista. Un libro con tutti questi contributi sarà pubblicato nel 2005, per ora si possono ascoltare sul sito internet www.fire.or.cr; altri materiali su tali argomenti e altre iniziative sul dono sono reperibili su www.gift-economy.com. Nel 2004 invece è stato pubblicato un libro di saggi, perlopiù in inglese, da parte di Meltemi: Il Dono/The Gift. Un’analisi femminista, che è il numero annuale della rivista Athanor, edito da Augusto Ponzio e Susan Petrilli della Università di Bari. A loro e Meltemi Editore, porgo i miei ringraziamenti più vivi per le collaborazioni che hanno dato luce a quel volume come a questo.
Vorrei dire anche che in genere nelle mia vita sono stata trattata bene dagli uomini e che questo libro non è rivolto contro di loro personalmente, ma contro un sistema e un paradigma economico sociale, che fanno male a tutti.
Abbiamo bisogno di fare una rivoluzione femminista sia interiore che internazionale, non una rivoluzione che ripeta i metodi patriarcali, ma che avvii un cambiamento profondo che permetterà a tutte le madri di curare i loro figli/e in abbondanza e ai figli/e di amare le loro madri. La società stessa ha bisogno di essere materna e così anche chi la governa. Le
stesse strutture del governare sono patriarcali, come cerco di dimostrare in questo libro, ma non sono permanenti. Sono intrise di paradossi che però possiamo e dobbiamo districare.
Gli esseri umani sono prima di tutto esseri che donano e ricevono. Questa azione è la base del loro pensare come anche del loro linguaggio. Sono gli sviluppi sbagliati di questi temi più semplici, che hanno portato alle complessità dello scambio e del dominio. Possiamo capire questi sviluppi per cambiarli, ma solo se riconosciamo la loro radice nella logica del dare e ricevere.
Allora sarà chiaro che il patriarcato e il mercato sono stati un de tou r e possiamo finalmente tornare tutti sulla strada principale, quella del dono.
Roma, febbraio 2005