Riportiamo l’intervento di Marilisa D’Amico, professore ordinario di Diritto Costituzionale e co-fondatrice di Vox, davanti alla Corte Costituzionale.
Illustri Presidente e Giudici della Corte, la questione oggi al vostro esame riguarda una norma “simbolo” della legge 40. Quella che sancisce il divieto assoluto della cd. fecondazione “eterologa”, e cioè la fecondazione ottenuta con il ricorso a gameti “esterni” alla coppia.
Una norma che nell’iter legislativo è stata oggetto di grande discussione, di volta in volta inserita ed eliminata, a seconda dei diversi progetti; un iter sofferto, molto simile da questo punto di vista a quello dell’art. 14, contenente per la fecondazione omologa il limite rigido dei tre embrioni e il divieto di crioconservazione – norma questa che è stata modificata e ricondotta a ragionevolezza con la vostra fondamentale decisione n. 151 del 2009.
Fin dall’entrata in vigore della disciplina il divieto assoluto della cd. fecondazione “eterologa” è subito apparso come profondamente ingiusto e discriminatorio nei confronti delle coppie ammesse alla fecondazione, ai sensi dell’art. 5, comma 1, e cioè le “coppie eterosessuali, sposate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi”, tanto che all’indomani dell’entrata in vigore della legge ci furono proposte legislative per eliminarlo e lo stesso articolo è stato oggetto di richiesta di referendum, una richiesta ammessa da questa eccellentissima Corte, che dunque fin dal 2005 (sent. n. 49) ha ritenuto non sussistente l’argomento di una possibile carenza di tutela nei confronti di beni giuridici assoluti tutelati dal divieto.
Se dunque la norma è subito apparsa come lesiva di molti principi costituzionali, i profili e gli argomenti sulla lesione del principio di uguaglianza e di ragionevolezza sono diventati fortissimi alla luce della decisione n. 151 del 2009, nella quale coraggiosamente e giustamente avete affrontato e corretto il problema dei limiti irragionevoli alla disciplina della cd. fecondazione omologa (quella ottenibile con i gameti della coppia, attraverso una fecondazione in provetta).
Nella decisione n. 151 avete giustamente ricondotto a ragionevolezza un aspetto della disciplina, modificando anche la tecnica della legge 40, con un cambiamento della norma: a fronte di un divieto rigido (quello di non superare il limite dei tre embrioni) che impediva al medico di fare il proprio mestiere, dopo la vostra decisione la legge ora consegna al medico e alla scienza la scelta responsabile sul numero degli embrioni “necessari”.
Nella stessa decisione avete giustamente affermato che la legge 40, come dovrebbe fare qualsiasi legge in uno Stato costituzionale laico, non può promuovere un valore, ma deve bilanciare “principi”, e che nel nostro caso la posizione dell’embrione deve essere bilanciata con “le giuste esigenze della procreazione” (che non significa diritto a diventare genitori, ma possibilità di esserlo con l’aiuto della scienza).
Dopo la vostra decisione è finito per le coppie che possono superare i problemi di sterilità con la fecondazione “in provetta” cd. omologa l’umiliante e per molti inaccessibile “esilio procreativo”: quelle coppie oggi hanno diritto a provare ad avere un bambino nel proprio paese, con tutte le garanzie, e la possibilità di accesso, anche per le coppie meno abbienti.
Dopo la vostra decisione emerge in modo prepotente la discriminazione totale e assoluta fra 2 “categorie” di coppie che si trovano in una condizione analoga dal punto di vista medico. Per i medici – e abbiamo qui fornito tutta la documentazione scientifica – è assolutamente pacifico che si tratta di coppie in condizioni mediche identiche: si parla di “infertilità e sterilità”; in entrambi i casi il bambino avrà origine in una “provetta”; il livello di tecnicismo e di aiuto delle scienza è identico. Le coppie che hanno avuto il coraggio di affrontare questo lungo giudizio per riuscire a provare a diventare genitori in Italia sono coppie in un caso la moglie è affetta da menopausa precoce (ord. 240, Tribunale di Catania) e in un altro caso il marito è affetto da infertilità assoluta con azoospermia completa.
Ma tante altre coppie che abbiamo conosciuto sono coppie apparentemente sanissime, che nel loro passato per un motivo banale sono diventate sterili: per un uomo una banale parotite, per una donna un intervento di appendicite eseguito male, e ci sarebbero tantissimi altri casi, fra cui soprattutto quello di giovani uomini e donne guariti da tumori. Tutte circostanze molto comuni che davvero rendono incomprensibile perché si discriminino cittadini che magari sono più fragili e hanno più sofferto.
Sono gli stessi medici a cui avete consegnato giustamente il ruolo centrale nella scelta del metodo più corretto che ritengono che si tratti di coppie in condizioni identiche, e quindi ingiustamente discriminate.
Vorrei sottolineare che questa questione è sollevata dal giudice sull’art. 4, comma 3, ma alla luce anche della rilevanza, è chiaramente limitata alla possibilità di accesso alla fecondazione cd. eterologa all’interno dei limiti di principio sanciti dalla legge 40, e cioè quello delle coppie eterosessuali, sposate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambe viventi. Scelte che non tutti nella nostra società condividono, ma che non sono messe in discussione dalle ordinanze di rimessione e dagli stessi centri medici che sono intervenuti, per i quali, in assenza della legge 40, il requisito di stabilità della coppia era indispensabile per accedere a qualunque tipo di percorso di fecondazione (in alcuni centri non si ammettevano le coppie conviventi che si riteneva offrissero minore stabilità).
Lesione dell’art. 3 della Costituzione anche sotto il profilo della sua irragionevolezza interna ed esterna.
Interna, perché come la Corte ha già deciso nella sentenza n. 151, è irragionevole una disciplina che ha come sua finalità, all’art. 1, comma 1, quella di “favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana” e che specifica al comma 2 dello stesso articolo che “Il ricorso alla procreazione medicalmente assistita è consentito qualora non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità e infertilità”, ma impedisce con il divieto assoluto della fecondazione cd. eterologa di raggiungere le finalità previste dalla legge, in casi nei quali non ci sono altri metodi efficaci per rimuovere tali cause.
Come messo in luce nelle ordinanze e come abbiamo già evidenziato negli atti difensivi l’irragionevolezza è anche esterna, in rapporto in particolare alla disciplina dell’adozione. I profili dell’irragionevolezza esterna si rafforzano moltissimo soprattutto alla luce delle recenti scelte del legislatore, che, con la legge n. 219 del 2012 e il decreto legislativo 154 del 2013, che interviene specificando e attuando i principi contenuti nella legge, in coerenza con la tendenza legislativa e giurisprudenziale a partire dalla legge n. 184 del 1983 sull’adozione, legge su cui la Corte è più volte intervenuta con principi fatti propri anche dalla legislazione successiva, dà piena attuazione ai principi costituzionali in tema di filiazione, equiparando totalmente i figli legittimi a quelli naturali e sancendo in modo definitivo il principio in base al quale i “figli sono tutti uguali”, a prescindere dal legame biologico o anche dalla situazione legale dei propri genitori. Le nuove norme in tema di parentela e di responsabilità genitoriale dimostrano in modo inequivocabile che il legislatore sposi un principio diverso da quelli della forma legale e della identità biologica, sostituendoli con l’attenzione all’uguale dignità di tutti gli esseri umani e alla sostanza dei rapporti familiari.
Se oggi la legge rende tutti i bambini uguali, a maggior ragione appare irragionevole una norma che vieta il ricorso in Italia a un metodo scientifico che può consentire a quella coppia di avere un “figlio” (legittimo, naturale o adottato sono etichette che scompaiono, perché dovrebbero rimanere quelle di figli in provetta di tipo omologo od eterologo?).
Questa disparità di trattamento si riflette molto pesantemente anche sul diritto alla salute delle coppie e di tutta la collettività, di fatto, come dirà meglio di me la collega Costantini, creando un mercato estero molto pericoloso, in molti casi estraneo a qualsiasi regola e di per sé fonte anche di una odiosa discriminazione economica.
Il mercato e la possibilità per le coppie di violare la legge è ammessa dal legislatore laddove all’art. 9 stabilisce puntualmente, nel caso di violazione della legge, il divieto di disconoscimento di paternità, di anonimato per la madre, nonché l’assoluta impossibilità per il donatore di acquisire alcune relazione giuridica parentale con il nato, né alcun diritto.
(….)
Illustri Giudici, la questione non arriva oggi per la prima volta, ma è frutto di una restituzione degli atti ai giudici a quibus, per una nuova valutazione sulla rilevanza e sui termini della questioni alla luce della sopravvenuta decisione della Grande Chambre nel caso SH contro Austria, caso che aveva costituito uno dei presupposti sui quali i giudici avevano basato le proprie censure nei confronti dell’art. 4, comma 3 legge 40. Ebbene, nell’ordinanza n 150, questa Corte ha dunque inteso come centrale il parametro di cui all’art. 117, comma 1, della Costituzione, per come viene integrato dalla giurisprudenza della Corte Europea. Il Tribunale di Milano ha ritenuto che continui a sussistere, alla luce delle argomentazioni della Grande Chambre, una violazione dell’art. 117, comma 1, dal momento che risulta pacifico come esista sul piano europeo un diritto alla scelta di rivolgersi alla scienza nel caso di infertilità, tutelata dall’art. 8 della CEDU (che tutela la famiglia). Il Tribunale di Milano intende il rinvio al margine di apprezzamento come un rinvio alle competenze del giudice costituzionale nel singolo stato, mentre valuta che la decisione contraria rispetto ai principi enunciati dalla GC in primo grado sia dovuta al cd. “time factor”. Nella sua ordinanza, il Tribunale di Milano valorizza moltissimo alcuni passi della decisione della GC, soprattutto laddove la Corte Europea sottolinea il necessario rapporto di adeguamento della legislazione in questi settori all’evoluzione scientifica, dalla quale dipendono poi anche le possibilità di scelta da parte dei cittadini.
Ma il parametro dell’art. 117, comma 1, è arricchito anche e soprattutto da una decisione della Corte europea, la famosa Costa-Pavan. Si tratta della prima pronuncia della Corte europea sulla legge 40, che non riguarda la fecondazione cd. eterologa, ma un altro profilo della legge 40, quello della diagnosi preimpianto.
La circostanza che la Corte europea accolga il ricorso della coppia italiana, stabilendo il diritto della coppia fertile, ma malata, ad avere accesso alla diagnosi preimpianto, unita soprattutto alle considerazioni di principio, sia sulla portata dell’art. 8 della Cedu, sia sugli aspetti critici della legge 40, fanno di questa decisione un elemento importante per giudicare oggi del divieto dell’art. 4, comma 3.
Anche nel caso della Costa Pavan, come nel nostro caso, assume particolare rilevanza il contesto europeo, un contesto nel quale in quasi tutti i paesi d’Europa tale possibilità è ammessa: esiste quindi un “consenso generale” alla possibilità di ricorrere alla fecondazione eterologa.
Ma soprattutto quello che la Corte europea ribadisce in modo chiarissimo è che nell’art. 8 della Cedu, la norma che tutela il diritto alla vita familiare, sia contenuto il fondamento costituzionale europeo della scelta in ordine alla procreazione medicalmente assistita.
Pur decidendo su una questione diversa dalla nostra, la Corte europea definisce la legge 40 un sistema legislativo “incoerente”, dal momento che discrimina fra cittadini e che da un lato impedisce la diagnosi preimpianto, dall’altro consente l’interruzione volontaria della gravidanza e gli strumenti diagnostici sul feto. Mutatis mutandis, un’incoerenza che ritroviamo nell’art. 4, comma 3 che stabilisce un divieto assoluto di ricorso alla fecondazione eterologa e nell’art. 9 della stessa legge che disciplina il rapporto di filiazione sorto a seguito della violazione di un precetto che per le coppie non ha sanzione, se non quella gradita di certificare che sono i genitori del bambino ai sensi dell’art. 9 appunto.
La Corte ritiene anche inammissibile che permanga una situazione in cui soltanto 3 dei 32 stati europei contengano il divieto: una situazione analoga a quella del divieto assoluto della fecondazione eterologa, vigente solo in Italia, Turchia e Lituania.
[nella decisione S.H. c. Austria si sottolinea che: “Come si può notare, la donazione di sperma è attualmente vietata solo in tre Paesi: Italia, Lituania e Turchia, i quali vietano nel complesso la fecondazione assistita eterologa. […] La donazione di ovuli è vietata in Croazia, Germania, Norvegia e Svizzera, oltre ai tre Paesi sopra menzionati.]
Alla luce delle argomentazioni della Corte europea è dunque tutelato il diritto alla non ingerenza dello Stato nelle decisioni in materia familiare, materia all’interno della quale troviamo e valutiamo anche la disciplina sulla procreazione medicalmente assistita.
Concludo con un’osservazione. Su questa norma si sono più che su altre concentrate le battaglie ideologiche sui diritti, e si tratta anche di un campo in cui i progressi scientifici vanno riconosciuti, ma fanno anche paura. E tuttavia il giudice costituzionale ha già saputo, in questo come in altri settori, soprattutto dinanzi agli errori o ai silenzi del legislatore, decidere con coerenza e coraggio.
E allora mi permetto di ricordare un caso deciso davanti alla Corte di giustizia, in cui il giudice, questa volta europeo, ebbe molto coraggio. Si trattò di riconoscere il diritto del transessuale a non essere licenziato a motivo del cambiamento di sesso, in virtù della direttiva del 1976 sulla parità di trattamento fra i sessi (sent. 30 aprile 1996, P contro S e Cornwall County Council, avvocato generale Tesauro).
In quel caso l’avvocato generale chiese alla Corte di “essere coraggiosa”: e mi sia consentito in questa sede di fare la stessa richiesta, parafrasando le parole che servirono in quel caso a convincere altro giudice, perché profondamente convinta “che è qui in gioco un valore universale, scolpito a caratteri indelebili nelle moderne tradizioni giuridiche e nelle costituzioni scritte, quello dell’eguaglianza”.
Ricordando alla Corte, come fu fatto allora, con profondo rispetto che “una diversa soluzione suonerebbe come una condanna morale, peraltro fuori dal tempo (…): e ciò quando il progresso scientifico e l’evoluzione sociale in materia offrono una dimensione del problema che certo trascende quella morale”.
Per questi motivi insisto sull’accoglimento della questione avente ad oggetto l’art. 4, comma 3, della legge 40 del 2004 “nella parte in cui estende il divieto del ricorso alla fecondazione eterologa anche nei casi di cui all’art. 5, comma 1”.