A leggerle in fila, le parole dell’intolleranza, si prova una certa repulsione, un leggero disagio che ci penetra nelle ossa e insinua un pensiero fastidioso. Ma davvero noi italiani siamo così? Ciò che la Mappa dell’Intolleranza fotografa è un’Italia ad alto tasso di odio e fastidio. Un’Italia che se la prende con chi viene percepito come debole, o più fragile.
Un’Italia bulla.
Però noi italiani non siamo solo così, lo sappiamo. Siamo anche capaci di aprirci alla solidarietà. E allora? Perché i social network si trasformano spesso e tragicamente nell’arena del nostro scontento e della nostra rabbia? Molte, speriamo, saranno le analisi che da qui in avanti cercheremo di approfondire sulla realtà che abbiamo fotografato. Alcune, quelle preziose del team di psicologi della Sapienza, coordinati da Vittorio Lingiardi, le abbiamo già a disposizione. E puntano il dito anche sulla specificità del mezzo, i social network, Twitter in questo caso.
140 caratteri dentro i quali comprimere i propri sentimenti. 140 caratteri per dire le emozioni, le paure, le rabbie che non trovano altre strade per essere elaborate, accolte, spiegate.
140 caratteri in cui ci alleniamo a urlare.
La domanda dalla quale siamo partiti nel lanciare la Mappa è faticosa e importante. Davvero un insulto lanciato per caso, per sbadataggine, per rabbia, per l’ira funesta del momento, può trasformarsi in un calcio in faccia a un gay, in un pugno alla propria donna, in un agguato a un extracomunitario o a un ebreo? In altri termini, le parole modificano le nostre azioni?
“Con la parola e con l’agire ci inseriamo nel mondo umano, e questo inserimento è come una seconda nascita”, diceva la filosofa Hannah Arendt. Allora sì, una parola scagliata come una pietra avvelena le menti e distorce il pensiero. E alla fine può farsi gesto. Hitler e i suoi sgherri si premurarono di cancellare il nome delle loro vittime, riducendole ai numeri tatuati sulle loro braccia. Poco dopo la decisione dello sterminio, nel ’43, ordinò di sospendere la produzione di giochi in tutto il Reich. Non c’era più bisogno di giocare (e di sognare, e di inventare) in un mondo di ombre.
Noi siamo le parole che scegliamo per raccontarci. Siamo le parole che diciamo. Mantieni i tuoi pensieri positivi, perché i tuoi pensieri diventano parole. Mantieni le tue parole positive, perché le tue parole diventano i tuoi comportamenti, diceva Gandhi. Così, la contrazione del nostro linguaggio può portare a non pensare e a non trovare il lessico giusto per dare un nome e una storia ai nostri sentimenti, belli o brutti che siano. Il linguaggio sincopato obbliga alla semplificazione. Ma quando si semplifica troppo, si finisce per non avere più materia per raccontarsi. E si finisce per agire d’istinto, seguendo il filo delle poche e cattive parole che, avendole scelte, ci inseguono. Gli scrittori lo sanno. Le parole sono come azioni e fanno accadere le cose.
Un grande monaco buddista, Thick Nhat Hahn, lo spiega con semplicità. “Quando diciamo qualcosa che ci nutre e dà conforto alle persone intorno a noi, alimentiamo l’amore e la compassione. Quando parliamo creando tensione e rabbia, nutriamo la violenza e la sofferenza”.
Ecco.
La Mappa dell’Intolleranza è soprattutto un progetto di prevenzione. Per ritrovare tutti quanti, ma soprattutto i più giovani, le parole giuste, quelle davvero umane, per raccontarci.
(#leparolefannomale è un hashtag creato da un gruppo di studentesse di Psicologia dell’Università Cattolica di Milano, nell’ambito di un progetto che mira a evidenziare come un linguaggio violento contribuisca a incitare l’odio anche nel mondo reale. Appunto.)