La prima parola dell’Iliade è menin, vuol dire ira. “Cantami, o Musa, del Pelide Achille l’ira funesta…”. Così comincia la prima narrazione della cultura occidentale.
Le prime parole che la Mappa dell’intolleranza registra sono:
frocioputtanazoccolarabbinoterroneculattonetroiacheccabagasciajihadistanegro.
Sempre di ira si tratta. Solo che la rabbia digitale non è cantabile, non è capace di narrazione, rappresenta solo uno stato affettivo implosivo ed esplosivo.
Leggendo i risultati del progetto che Vox – Osservatorio italiano sui diritti ha coordinato con il supporto fondamentale delle università di Milano, Roma – La Sapienza, Bari, non si può non provare un senso di strisciante fastidio.
Perché ciò che la Mappa dell’Intolleranza fotografa è un’Italia ad alto tasso di rabbia. Una rabbia greve, insistente, anche un po’ infantile, con quel suo continuo rimando a parti e a funzioni corporali ritenute disgustose. Una rabbia inutile. E inquietante, perché se la prende con chi viene percepito come debole, o più fragile.
La Mappa dell’Intolleranza anno 2 rafforza la sensazione di un’Italia bulla. Un’Italia, che usa i social network come un’arena del proprio scontento.
In questo, nella mancata voglia/ capacità di assumersi davvero la responsabilità del proprio scontento, i social giocano un ruolo di primo piano. Twitter, innanzitutto. 140 caratteri dentro i quali comprimere i propri sentimenti. 140 caratteri per dire le emozioni, le paure, le rabbie che non trovano altre strade per essere elaborate, accolte, spiegate.
140 caratteri in cui ci alleniamo a urlare.
Si chiama “sciame digitale”, il complesso delle nostre interazioni in rete. E, come spiega il filosofo Byung- Chul Han: “Lo sciame digitale non è una folla, perché non possiede un’anima, uno spirito. L’anima raduna e unisce: lo sciame digitale è composto da individui isolati”.
Così, urlare in Rete non aiuta a eliminare il senso di accerchiamento e di isolamento. Lo rafforza.
Gli abitanti digitali della Rete non si riuniscono: manca loro la spiritualità del riunirsi, che produrrebbe un Noi. Danno vita a un assembramento senza riunione, a una massa senza spiritualità, senza anima o spirito. Sono i moderni hikikomori che, isolati nel loro solipsismo, sfogano le proprie frustrazioni lanciando le loro pietre verbali.
Il medium digitale ci allontana dall’altro, lo dematerializza e lo rende quindi bersaglio ideale, perché incorporeo. Lo spazio della rete si trasforma così nell’arena dove la propria ecolalia trova spazio, in un confronto narcisistico con se stessi, che non ammette la presenza dell’altro.
Il messaggio breve (texting), poi, elide le sfumature e i contrasti, elimina la profondità.
È l’era digitale, che si nutre di un’orizzontalità che appiattisce e non lascia sedimentare, nell’illusione che tutto si possa cancellare con un semplice clic.
Così il pensiero si semplifica e il messaggio si estremizza e si polarizza al negativo.
Dove l’altro non esiste, lo si elimina più facilmente. Salta agli occhi, nella versione numero 2 della Mappa dell’Intolleranza, la concomitanza tra alcuni fatti e l’agitarsi della rete. Quando lo sciame inizia a ronzare, lì è successo qualcosa. O sta per succedere.
Si legge con inevitabile angoscia quella curva che registra un picco di insulti contro le donne tra agosto e settembre 2015. Perché accanto a quella curva scorrono dei nomi.
Antonietta De Santis, Deborah De Vivo, Rita Paola Marzo, Laura Simonetti, Paola Ferrarese, Fanica Stamate, Antonia Rotella, Cezara Musteata, Natalina Badini, Daniela Masaro, Omayma Benghaloum, Anna Carlucci, Vincenza Avino, Carmela Mautone.
Diciamoli, quei nomi. E urliamoli, per dare loro corpo e peso e realtà. Sono le donne che sono state uccise, massacrate da uomini che hanno perso se stessi.
Dunque, le parole che diciamo o che gettiamo in rete incidono sulle nostre azioni?
“Con la parola e con l’agire ci inseriamo nel mondo umano, e questo inserimento è come una seconda nascita”, diceva la filosofa Hannah Arendt.
Le parole creano e modellano il mondo che vivremo, gli individui che siamo e che saremo.
Sono il nostro racconto, la nostra narrazione.
Noi siamo le parole che scegliamo per raccontarci. Siamo le parole che diciamo.
Mantieni i tuoi pensieri positivi, perché i tuoi pensieri diventano parole. Mantieni le tue parole positive, perché le tue parole diventano i tuoi comportamenti, diceva Gandhi.
Così, la contrazione del nostro linguaggio può portare a non pensare e a non trovare il lessico giusto per dare un nome e una storia ai nostri sentimenti, belli o brutti che siano. Il linguaggio sincopato obbliga alla semplificazione. Ma quando si semplifica troppo, si finisce per non avere più materia per raccontarsi. E si finisce per agire d’istinto, seguendo il filo delle poche e cattive parole che, avendole scelte, ci inseguono.
Gli scrittori lo sanno. Le parole sono come azioni e fanno accadere le cose.
La Mappa dell’Intolleranza è soprattutto un progetto di prevenzione. Pensato per amministrazioni locali, scuole, associazioni che lavorano sul territorio, per chiunque abbia bisogno di strumenti adeguati e mezzi di interpretazione di realtà sempre meno codificabili, per combattere l’odio e l’intolleranza. E per chiunque pensi che tutti noi abbiamo bisogno di nutrire la cultura del dialogo, ritrovando le parole che sorridono, accompagnano, abbracciano.