“Il 70% delle immagini presenti nella pubblicità rappresenta figure femminili che deformano la realtà e producono stereotipi che finiscono per legittimare comportamenti violenti e offensivi per il corpo della donna”. È quanto ha sostenuto Francesca Zajczyk, sociologa e docente, al convegno organizzato il 17 settembre dal Comune di Milano“Quando comunicazione fa rima con discriminazione”, dedicato al tema della pubblicità sessista. Un argomento, quello dell’uso del corpo delle donne in comunicazione, reso ancora più attuale dalle parole del Presidente della Camera Laura Boldrini, che ha dichiarato: “Serve porre dei limiti all’uso del corpo della donna nella comunicazione. È inaccettabile che in questo Paese ogni prodotto, dallo yogurt al dentifricio, sia veicolato attraverso il corpo della donna”. Sul tema, il Comune di Milano è intervenuto con un provvedimento coraggioso, approvando, lo scorso 28 giugno, “Gli indirizzi fondamentali in materia di pubblicità discriminatoria e lesiva della dignità della donna”, una serie di norme che sanciscono l’impegno da parte del comune nel limitare la diffusione di immagini sessiste e offensive.
Vox ne ha parlato con Francesca Zajczyk, sociologa, docente presso l’Università Bicocca e delegata del Sindaco alle Pari Opportunità, Ilaria d’Amico, giornalista e conduttrice televisiva, e Lorella Zanardo, scrittrice e documentarista.
Il Comune di Milano contro la pubblicità sessista. La Giunta comunale ha approvato, il 28 giugno 2013, “Gli indirizzi fondamentali in materia di pubblicità discriminatoria e lesiva della dignità della donna”, un documento redatto affinché i manifesti pubblicitari siano sempre ispirati a criteri di rispetto delle pari opportunità tra donne e uomini e di una corretta rappresentazione dell’identità di genere, lontano dagli stereotipi avvilenti per la dignità delle persone. A partire proprio dai messaggi affissi negli spazi comunali.
Ma il capoluogo lombardo non è l’unico a essersi schierato in prima linea contro l’uso discriminatorio delle immagini femminili. Anche altre amministrazioni, come il Comune di Roma, Genova o Firenze, hanno già deciso di intervenire proprio al fine di limitare la diffusione di immagini violente, discriminatorie o offensive. Passi importanti, che hanno però aperto il dibattito sulla legittimità di un intervento da parte dell’Amministrazione nei confronti della creatività dei pubblicitari: ad oggi vige in Italia il codice di autodisciplina pubblicitaria (accettato dalla quasi totalità delle imprese del settore) che vieta agli art. 9 e 10 l’uso di immagini violente e discriminatorie. Il rispetto di queste norme, garantito dagli organi giurisdizionali dell’Istituto di autodisciplina pubblicitaria (Giurì e Comitato di Controllo), ricopre di per sé un ruolo fondamentale nel contrasto della pubblicità sessista, ma ancora non è sufficiente a tutelare la dignità della donna. Per questo motivo le Istituzioni stanno intervenendo con vere e proprie norme da affiancare ai codici di autoregolamentazione, per porre fine all’uso di immagini che ancora discriminano e offendono il corpo femminile.
PUBBLICITA’ SESSISTA: IL QUADRO NORMATIVO
Non bastano i codici di autodisciplina adottati dalle agenzie del settore, negli ultimi anni anche le istituzioni hanno dato il loro contributo alla battaglia contro la costruzione di stereotipi avvilenti per la dignità delle persone nella pubblicità.
Nello specifico, a livello internazionale, la Piattaforma di Pechino sulla tutela dei diritti delle donne approvata dalla IV Conferenza mondiale delle Nazioni Unite invita gli Stati a promuovere un’immagine equilibrata e non stereotipata delle donne sui media. Più recentemente, la Convenzione di Istanbul, sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne, obbliga gli Stati a “coinvolgere anche il settore privato, il settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e i mass media nella predisposizione di politiche e linee guida oltre che di norme di autoregolazione per prevenire la violenza contro le donne e il rispetto della loro dignità”, ricollegando per la prima volta la pubblicità sessista al fenomeno della violenza di genere.
A livello europeo invece, due sono le risoluzioni del Parlamento europeo (del 2008 e del 2013) che sottolineano l’importanza dell’introduzione di “norme etiche e/o giuridiche vincolanti che proibiscano messaggi discriminatori o degradanti basati sugli stereotipi di genere”, proprio in base alla considerazione che quest’ultimi rappresentano un ostacolo alla creazione di una società moderna e paritaria.
In Italia, infine, sono stati presentanti negli anni passati alcuni disegni di legge, che tuttavia non sono mai giunti all’approvazione definitiva (v. disegno di legge Pollastrini – Mosca 2011). Dalle relazioni illustrative si evince che tali proposte hanno il fine di attuare il principio costituzionale di parità fra i generi (art. 3 Cost.). I messaggi pubblicitari sessisti o discriminatori infatti contrastano con i principi costituzionali di uguaglianza, rispetto della dignità umana, e tutela dell’integrità fisica e morale e della persona. Nell’ambito della pubblicità, tali principi devono essere bilanciati con altre libertà garantite dalla Costituzione: la libertà di iniziativa economica (art. 41 Cost.) e la libertà di espressione (art. 21 Cost.) in primis. Ma è la stessa Costituzione, che pone limiti precisi al godimento di tali libertà: l’art. 21 della Costituzione, ad esempio, tutelando la libertà di espressione vieta ogni manifestazione contraria al buon costume, mentre l’art. 41, garantendo la libertà di iniziativa economica dei cittadini, specifica che essa non può svolgersi “in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.”