Il 26 giugno, si celebra la Giornata Internazionale a sostegno delle vittime di Tortura. Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, trentunenne romano deceduto in circostanze sospette durante la custodia cautelare per possesso di droga (vedi scheda di approfondimento sulla vicenda), ha scelto quest’occasione per lanciare il proprio appello per tre leggi di iniziativa popolare su tortura, carceri e droghe.
In Italia oggi non esiste il reato di tortura (qui scheda di approfondimento) e una sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani nei primi mesi di quest’anno ha condannato il nostro Paese per “trattamenti disumani e degradanti, in relazione allo stato delle carceri”. In cento piazze italiane, oggi, l’appello promosso da Ilaria Cucchi insieme a molte associazioni con la campagna 3 leggi chiede di far fede alle convenzioni internazionali ratificate e sottoscritte dall’Italia con l’introduzione del reato di tortura nel codice penale, la modifica della legge sulle droghe con depenalizzazione del consumo e riduzione dell’impatto penale e maggiore legalità e rispetto della Costituzione nelle carceri.
Le condizioni inumane delle nostre carceri mettono in gioco la credibilità democratica del nostro paese. VOX ha parlato di questi temi e di diritti delle persone in carcere con don Gino Rigoldi, presidente di Comunità Nuova, l’associazione che si occupa dell’inserimento sociale dei ragazzi usciti dalla detenzione.
Io ricordo sempre che ai giudici spetta stabilire le eventuali pene, a Dio giudicare, a me capire la storia della persona e cercare il modo di farla ricominciare. Con Stefano Cucchi non è più possibile. Non potrà ricominciare. Non voglio entrare nel merito di una sentenza che ha comunque lasciato sgomenti tutti coloro che hanno in mente l’articolo 13 della Costituzione italiana (“È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà.”), posso però fare alcune considerazioni che la storia di Stefano ricorda con urgenza a tutti noi.
Non è così complicato enunciare i diritti fondamentali dei detenuti: sono gli stessi di qualsiasi altro cittadino, seppur rapportati all’ambito di restrizione della libertà personale nella quale si trovano: il diritto alla salute (all’integrità psico-fisico, ai trattamenti sanitari e ad un ambiente salubre); il diritto all’identità della persona (ad essere chiamati per nome e non con un numero…); il diritto a coltivare relazioni umane (i colloqui, per fare un esempio); il diritto all’educazione, alla formazione e al lavoro. A coronamento di questa parziale e sintetica carrellata, ricordo l’articolo 27 della Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.”.
Bene, per quanto riguarda le dichiarazioni saremmo a posto. Io però vivo nella realtà concreta abitata da persone vive per quali non è sufficiente pronunciare la parola ‘acqua’ per calmare la sete. E queste persone non sempre possono godere dei diritti loro accordati. Non voglio riferirmi a quei casi in cui singole responsabilità personali intervengono nella negazione dei diritti (un agente che picchia un detenuto, e vice versa, o un medico inadeguato devono essere puniti secondo la legge), ma a quelle condizioni strutturali che impediscono la praticabilità dei diritti, condizioni per le quali nessuno sembra assumersene la responsabilità. Siamo nel campo del “vorrei ma non posso”: hai diritto a vivere in un ambiente dignitoso, ma non abbiamo spazio; hai diritto ad essere seguito da educatori, mediatori e psicologi, ma non abbiamo soldi per assumerne a sufficienza; hai diritto a non stare chiuso nella cella per 23 ore al giorno e a poter stare con altre persone, ma siamo sotto organico.
In alcuni istituti di pena ci sono condizioni migliori, in altri la situazione si ferma al confine con la tortura. Credo dovremmo smetterla di pensare che i limiti che impediscono di godere dei diritti siano indipendenti dagli organi di governo e dalla società: ci sono invece persone che decidono di non destinare le risorse economiche necessarie per garantire i diritti dei detenuti, e persone che producono leggi (la Fini-Giovanardi e la ex Cirielli, per fare un esempio) che determinano una popolazione carceraria ingestibile grazie a una perversione per cui un giovane che possiede 20 grammi di hashish diventa un trafficante internazionale, e un pover’uomo al terzo furto di mozzarelle diventa un grave pericolo per la società.
Stefano Cucchi avrebbe avuto diritto ad essere trattato secondo i principi della dignità umana. Avrebbe dovuto essere aiutato. Invece è morto. Possiamo cavarcela dicendo “Ci dispiace, non c’erano le risorse”?
In questi giorni si sta decidendo, in commissione e quindi in Parlamento, sulle pene alternative al carcere. Una buona notizia, ma spero che alle parole poi seguano i fatti. Non è per niente ovvio, purtroppo.
don Gino Rigoldi