La Corte dei diritti dell’uomo ha bocciato il nostro Paese sulle modalità di accoglienza dei richiedenti asilo. Una situazione, quella dei profughi in Italia, che rivela il cattivo stato delle politiche per i rifugiati promosse dal Governo. Ma qual è la situazione attuale? Quali, le regole imposte a livello internazionale? Oggi, in Italia, gli immigrati nelle diverse strutture di prima e seconda accoglienza sono poco meno di 66.000. Di questi, 25.000 sono minori. Proviamo a fare un po’ di chiarezza con Isabella Menichini, dirigente pubblico esperto di politiche e diritti sociali.
Mai si è parlato cosi tanto nel nostro Paese di rifugiati, richiedenti asilo, profughi, ma pochi si sono sforzati di fare un po’ di chiarezza sui numeri e sul reale significato dei diversi termini, sulle regole fissate a livello internazionale, europeo e recepite a livello nazionale. Va detto che gli organi di comunicazione e la politica non aiutano i cittadini a comprendere la reale portata dei flussi migratori. Basta guardare ai dati pubblicati dalla nuova Global Survey di Ipsos MORI sulle errate percezioni delle popolazioni di 14 Paesi su alcuni items fondamentali, tra cui l’immigrazione, i musulmani: gli italiani pensano che il livello di immigrati nel nostro Paese sia pari al 30%, ed in realtà è il 7% e che i musulmani siano il 20% in realtà sono il 4%. Proviamo almeno a fissare qualche paletto.
Partendo proprio dalla sentenza della Corte Europea di Strasburgo pronunciata in favore di una famiglia afghana contro il Governo elvetico il quale, in attuazione delle regole fissate a livello comunitario (Regolamento di Dublino e successive modificazioni) l’aveva respinta in Italia, paese che aveva lasciato per recarsi prima in Austria e poi in Svizzera, dove aveva ripetutamente presentato domanda di protezione internazionale. Le regole generali “di Dublino” prevedono che uno straniero possa presentare domanda di asilo politico nel primo paese europeo con cui entra in contatto ed in cui è individuato. Nel caso in cui egli, invece, tenti di aver riconosciuta la condizione di rifugiato in un Paese differente, quest’ultimo ha il potere di respingerlo nel primo Stato di arrivo. A inizio 2014 è entrato in vigore il nuovo Regolamento UE (n. 604/2013) – Dublino III – per la determinazione dei criteri e dei meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo o da un apolide. Rimangono tuttavia invariati i presupposti fondamentali: da un lato, evitare che nessuno Stato si dichiari competente all’esame della domanda di protezione internazionale, privando così il rifugiato del diritto di accedere alla procedura amministrativa prevista per il riconoscimento dello status; dall’altro, impedire i movimenti interni all’UE dei richiedenti protezione, lasciando agli Stati – e non alle persone – la facoltà di decidere in quale Stato la persona debba veder esaminata la domanda.
Orbene, andando oltre queste previsioni, la corte Europea ha valutato che a causa di “deficienze strutturali” del sistema di accoglienza italiani, rimandare indietro i migranti li sottoporrebbe a “trattamenti inumani e degradanti” ed ha accolto quindi il ricorso della famiglia afgana. “Vista la situazione attuale del sistema di accoglienza in Italia, non è infondata la possibilità che un numero ragguardevole di richiedenti asilo rimanga senza alloggio, o sia sistemato in centri sovraffollati, in condizione insalubri e pericolose”, si legge nella sentenza. La Svizzera avrebbe dovuto quindi accertarsi delle condizioni in cui la famiglia afgana sarebbe stata accolta, prima di rispedirla in Italia.
Per fare chiarezza occorre innanzitutto ricordare chi sono i rifugiati, i profughi e guardare a qualche dato che chiarisca la portata dei fenomeni che hanno coinvolto l’Unione europea ed il nostro Paese. Gli anni più recenti in considerazione delle gravissime tragedie che hanno colpito tante popolazioni hanno visto crescere accanto al più tradizionale strumento del riconoscimento dello status di rifugiato, nuovi strumenti di protezione. Per rifugiato – secondo la Convenzione ONU del 1951 (firmata da 147 paesi), si intende una persona che “temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o opinioni politiche, si trova fuori del paese di cui ha la cittadinanza, e non può o non vuole, a causa di tale timore, avvalersi della protezione di tale paese”. Negli anni questa definizione si è ampliata ricomprendendo tutte le persone che fuggono dai loro paesi “perché le loro vite, la loro sicurezza o la loro libertà sono state minacciate da una violenza generalizzata, un’aggressione straniera, un conflitto interno, una violazione massiccia dei diritti dell’uomo o altre circostanze che abbiano gravemente turbato l’ordine pubblico”. Dal punto di vista giuridico-amministrativo lo status di rifugiato è riconosciuto a chi se tornasse nel proprio paese d’origine potrebbe essere vittima di persecuzioni, quindi di azioni che rappresentano una violazione grave dei diritti umani fondamentali. I rifugiati, sulla base degli standard internazionali devono poter godere nei Paesi di accoglienza quindi di tutti i diritti umani nonché di tutti quei diritti che in concreto avvicinano la loro condizione a quella dei cittadini del Paese di accoglienza (diritto al lavoro, alla salute, all’istruzione, alla protezione sociale, alla casa, ecc.). L’Italia ha recepito la convenzione con legge n. 722 del 1954 ed ha progressivamente definito le procedure per l’ ottenimento dello Status di Rifugiato.
In anni più recenti a livello internazionale, europeo e nazionale sono stati individuati ulteriori strumenti per proteggere i moltissimi “profughi”, quelle persone cioè che fuggono dai loro paesi a causa di guerre, invasioni, rivolte o catastrofi naturali. Nei loro confronti possono essere attivate misure di “protezione sussidiaria” – in particolare verso chi corre il pericolo di subire tortura, condanna a morte o trattamenti inumani o degradanti per motivi diversi da quelli previsti dalla convenzione di Ginevra. O misure di protezione umanitaria a chi necessita appunto di protezione e/o assistenza perché particolarmente vulnerabile sotto il profilo medico, psichico o sociale. E’ disciplinata nel nostro Paese dal Testo Unico sull’immigrazione ed è riconosciuta al richiedente protezione internazionale quando la Commissione Territoriale, pur non accertando la sussistenza di esigenze di protezione internazionale, valuta l’esistenza di seri motivi di carattere umanitario che giustificano la permanenza del richiedente sul territorio nazionale.
A livello globale gli ultimi anni sono stati terribili: il 2013 ha fatto registrare movimenti di persone costrette ad abbandonare le loro case e cercare protezione fuori dai confini del proprio paese come non se ne vedevano dai tempi del genocidio in Ruanda (1994): parliamo di oltre 2,5 milioni di persone. Nei 28 Stati membri dell’Unione Europea sono state presentate, in quell’anno, 435.390 domande di asilo. 30% in più rispetto all’anno prima, 100.000 domande in più rispetto al 2012. Complessivamente più di 135.000 domande accolte in aumento quindi rispetto al 2012 (102.700) e al 2011 (84.300). La metà delle decisioni positive (50,6%) è stata pronunciata da tre paesi: Svezia (26.400), Germania (26.080) e Francia (16.155). Con l’Italia (14.465), il Regno Unito (13.400) e i Paesi Bassi (10.620) si arriva all’80% del complessivo. A livello europeo, delle oltre 130mila persone che hanno ottenuto una forma di protezione, il 47,5% (pari a 64.465 individui) ha ottenuto lo status di rifugiato, il 37,5% (50.890) la protezione sussidiaria e nel 15,0% dei casi quella umanitaria. Dai dati si evince con chiarezza ed a differenza di tante polemiche sorte nel nostro Paese, che alcuni altri Paesi europei riservano al tema della protezione internazionale un’attenzione forte, superiore all’impegno italiano. LA grandissima difficoltà del nostro Paese è legata agli sbarchi. Nel 2014 sulle coste e nei porti del Sud dell’Italia, sono arrivate infatti oltre 170.000 persone, di cui ben oltre il 30% di donne e minori. Un’emergenza senza precedenti. Nel 2011, anno record per gli effetti delle “primavere arabe”, gli arrivi erano stati 63.000, 13.000 nel 2012 e 43.000 in tutto il 2013. I dati dell’Agenzia europea Frontex indicano una prevalenza di eritrei e siriani tra coloro che hanno attraversato il Mediterraneo nei primi otto mesi del 2014; seguono i cittadini di Mali, Nigeria, Gambia e Somalia. L’OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) stima che siano stati oltre 3 mila i morti nel Mediterraneo tra gennaio e settembre 2014, e 22.400 quelli che hanno perso la vita dal 2000 ad oggi.
Ma in Italia i profughi non vogliono restare. Al 1° gennaio 2015 le persone accolte e rimaste nelle diverse strutture di prima e seconda accoglienza sono poco meno di 66.000, evidenzia la Fondazione Migrantes che ricorda che al primo gennaio 2015 i minori sbarcati in Italia sono 25 mila, di questi i non accompagnati sono 18.599. “L’Italia per molte persone, in particolare siriani e palestinesi, è stata terra di passaggio per raggiungere famiglie e comunità in altri paesi europei, dove sono convinti di trovare maggiori opportunità lavorative, ma anche strumenti e modalità di accoglienza più efficaci – ha ricordato Mons. Perego. Ma in Italia abbiamo visto anche Comuni, Associazioni impegnati in uno sforzo straordinario per dare accoglienza a queste persone. Il solo Comune di Milano, coadiuvato da associazioni e cooperative, ha assicurato assistenza e ristoro da ottobre 2013 a oggi a circa 54 mila persona in massima parte siriani, di cui 14 mila bambini. Uno sforzo immane portato avanti con le sole forze del territorio, senza poter contare di fatto su un coordinamento nazionale nella gestione dei flussi dai porti meridionali.
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