Nel giorno della festa della Repubblica, si impone una riflessione sulle riforme costituzionali, su cui si ragiona oramai da una decina d’anni, e che, tutt’oggi sono al centro del dibattito politico.
Dopo trent’anni, nei quali si è cercato di ipotizzare in modi diversi il superamento del bicameralismo paritario – una delle tante cause dell’immobilismo parlamentare e della perdita di centralità del nostro Parlamento – il recente disegno di legge costituzionale presentato dal Governo sembra incentrato sulla necessità di dimostrare una riduzione del “peso” delle istituzioni, sia in termini di numeri (dei parlamentari), sia in termini di costi (di funzionamento), sia in termini di soppressione di enti inutili (il CNEL).
In questo senso si muove anche la scelta, a mio avviso condivisibile, per un Senato non elettivo, di secondo livello e rappresentativo delle Regioni e degli enti locali, con una funzione di garanzia nel procedimento di revisione costituzionale e di prevenzione dei conflitti fra lo Stato e le Regioni.
Tuttavia, non si tratta dell’aspetto più rilevante, ma vi sono altri punti del disegno di legge costituzionale che meritano una riflessione approfondita.
Innanzitutto, al fine di garantire una più effettiva rappresentatività del territorio si potrebbe ragionare se la previsione in ugual numero dei sindaci e dei soggetti di investitura regionale in ciascuna regione non possa essere migliorata con l’introduzione di un sistema che valorizzi le differenze tra regioni in base alla quantità di popolazione. Ancora, la previsione dei membri di nomina presidenziale, che, scelti fra 21 cittadini “che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”, ripropone il problema della possibilità, all’interno dell’organo, di una sorta di “partito del Presidente”, aspetto già discusso in occasione delle nomine dei cinque senatori a vita.
Rilevo anche un aspetto problematico che attiene alla durata del Senato delle autonomie rispetto alla sua composizione. Nel disegno di legge di riforma costituzionale si prevede che “la durata del mandato dei senatori coincide con quella degli organi delle Istituzioni territoriali nelle quali sono stati eletti”. Ciò significa che la carica dei senatori di nomina presidenziale dura sette anni. Avremmo così un organo composto in parte da senatori, quelli di nomina presidenziale, che assicurano una continuità, che supera anche la durata naturale della legislatura della Camera, e in parte da senatori il cui mandato ha durata variabile. Non si può non sottolineare che saremmo di fronte a un organo i cui componenti potrebbero cambiare di frequente, con tutti i problemi di organizzazione e funzionalità che ne discenderebbero. Inoltre, è significativo che la proposta introduca una corsia preferenziale per i disegni di legge del Governo: una corsia che consentirebbe, in Costituzione, il ricorso alla c.d. “ghigliottina”. Infatti, decorso il termine, il testo proposto o accolto dal Governo sarebbe messo in votazione senza modifiche articolo per articolo e con votazione finale.
Nulla si prevede, invece, in tema di diritti delle minoranze, lasciando ancora una volta la tutela delle loro prerogative alle norme dei regolamenti parlamentari. Sono questi dettagli che suscitano perplessità sulla volontà reale di ridare centralità al Parlamento e quindi alla democrazia rappresentativa, fatta di confronto fra maggioranza e opposizione. Infine, ritengo auspicabile l’introduzione di norme antidiscriminatorie per le donne che volessero entrare a far parte dell’assemblea delle autonomie. L’assenza di strumenti ad hoc a tutela della rappresentanza femminile nel “nuovo Senato” potrebbe riportarci indietro rispetto all’equilibrio di genere cui tanto faticosamente ci si sta avvicinando nelle due Camere.
In conclusione, la riforma costituzionale lascia aperto un interrogativo di fondo. Davvero il degrado delle istituzioni rappresentative non lascia spazio a una revisione che non sia nel senso di un totale ridimensionamento? Non potrebbe essere questa l’occasione per rinsaldare i meccanismi dell’orologio, valorizzando la centralità del Parlamento? Se così fosse, e se quindi la riforma volesse davvero raggiungere questi obiettivi, credo che sarebbe opportuna una sua modifica, almeno sui punti che ho segnalato, per non incorrere in un vizio profondo di irragionevolezza, quello dell’incongruità fra i fini dichiarati e i mezzi predisposti per il loro raggiungimento.
Per approfondimenti, si veda l’articolo Una riforma irragionevole? su www.federalismi.it
Marilisa D’Amico
Ordinario di Diritto costituzionale
Università degli studi di Milano
Vice-presidente del Consiglio di Presidenza
della Giustizia amministrativa