Quando, quattro anni fa, abbiamo iniziato a lavorare al progetto Mappa dell’Intolleranza, l’Italia cui ci trovammo di fronte era profondamente diversa dall’attuale.
Gli odiatori via social esistevano, certo, ma erano nascosti, protetti e fortificati dall’anonimato che la Rete garantiva loro. Si accanivano soprattutto contro le donne e contro le persone omosessuali.
Oggi la fotografia che emerge dalla Mappa 4.0 racconta di un’Italia furiosa e rabbiosa, che si accanisce soprattutto contro migranti, ebrei, musulmani. E ancora contro le donne. Una schiera di haters, stavolta tronfi e orgogliosi del proprio odiare, cui una certa politica ha inoculato il veleno della intolleranza.
La Mappa 4.0 lo spiega con la freddezza dei numeri: un hater su tre si scatena contro “lo straniero”. L’antisemitismo, di fatto inesistente fino al 2017, oggi è uno dei protagonisti dell’odio via social. Quasi il 60% dei tweet pone al centro del proprio soliloquio e turpiloquio virtuale la tripletta migranti/ ebrei/ musulmani. Tra questi, la percentuale di tweet che contengono un tasso di aggressività alto, anzi altissimo, è la stragrande maggioranza. Vale ricordare che la “tripletta”, prendersela cioè con le tre categorie verso cui si canalizzano odio/ preoccupazione/ paura per il “diverso”, è purtroppo sintomo e segnale di razzismo.
“La domanda che dobbiamo porci oggi è se accettiamo la visione di un mondo egualitario o se vogliamo mantenere la nostra visione di antichi dominatori. Questa domanda la faccio rispetto a due categorie che metto sullo stesso piano: i migranti e le donne. Saremo nella modernità quando avremo riconosciuto che tutti ne dobbiamo far parte. Quando si evoca il trittico “liberté, egalité, fraternité”, concetti a cui aggiungo quello di dignità, stiamo parlando della libertà di tutti? Della fratellanza di tutti?”. Domanda faticosa, posta da un sociologo dallo sguardo acuto, Alain Touraine.
Di che cosa ci sta parlando Touraine?
Ci sta parlando della nostra responsabilità.
Attorno al progetto della Mappa dell’Intolleranza abbiamo voluto raccogliere competenze e studiosi diversi, perché troppo complesso è il quadro che dobbiamo cercare di interpretare e affrontare. Uno sguardo solo non basta più.
Così giuristi, psicologi, linguisti, sociologi, esperti di comunicazione ci stanno aiutando a decrittare le mille sfumature che il nuovo scenario ci impone di osservare, noi entomologi di un mondo in evoluzione.
La responsabilità è alta. E appartiene a tutti noi.
Appartiene prima di tutto ai social media. Facebook, Twitter e altri social non sono stati in grado di arginare il fiume dell’odio.
Certo, ribadisce qualcuno, i social media non c’entrano, sono solo un vettore. Solo che nell’era complessa della convergenza, come ha ben spiegato Henry Jenkins, quando i nostri pensieri e le nostre parole si fanno fluide e sono in grado di raggiungere milioni di ascoltatori, il peso dei nostri messaggi grava sulle coscienze di ciascuno di noi. In primis, su quelle di chi amministra e dirige le strategie dei grandi gruppi.
Quindi sì, a nostro parere, i social network andrebbero normati. O si dovrebbero auto-normare, se ne fossero capaci e davvero intenzionati.
Perché la bomba sociale che hanno innescato ha una carica che si va ingigantendo, nutrendosi delle frustrazioni, delle paure e delle ansie dei sommersi e non salvati, alimentata da certa politica di corto respiro, che vuole e cerca tornaconti immediati e commisurati al proprio vociare.
Perché si urla oggi? Perchè si grida la rabbia?
Si grida di più perché si sa di essere di fronte a fenomeni e trasformazioni epocali che spaventano.
Si grida contro le donne, perché portatrici di vita e diversità culturale.
Si grida contro i migranti, perché diversi per definizione, elementi contaminanti e pericolosi per la nostra integrità.
Ci si infuria e ci si accanisce per proteggere la terra che, si pensa, ci stia franando sotto i piedi.
Si grida per paura.
E poi si insultano gli ebrei. Il numero dei tweet antisemiti, lo abbiamo detto, è salito. E purtroppo, inevitabilmente, risuona nelle nostre anime il rombo cupo della storia del Novecento. E nella memoria dei nostri avi, tracciata nel nostro DNA, probabilmente risuona il ricordo di altre epoche storiche. Quelle dei pogrom, per intenderci.
“Vandalisimi e violenze antisemite dilagano in Europa dopo le elezioni”, titola un quotidiano nazionale all’indomani dell’ultima tornata elettorale.
E ancora.
Un ebreo su quattro in Europa ha avuto esperienza di violenze verbali o altro nell’ultimo anno.
E ancora.
Il 38% degli ebrei europei ha pensato di lasciare il proprio Paese a causa dell’antisemitismo crescente.
“Ciascuno di noi è senza dubbio responsabile per tutti e per tutto ciò che accade sulla terra”. Lo ha scritto Dostoevskij.
Nei testi sacri dell’ebraismo invece è scritto: “Ogni ebreo è responsabile dell’altro, è garante dell’altro”.
Ecco, è il patto fondativo del nostro essere sociali, ciò che ci rende individui in grado di convivere con la nostra umanità. La base feconda delle nostre democrazie.
E dunque.
I nazisti, si sa, se la prendevano con i libri. Il poeta Heinrich Heine lo aveva predetto: “Dove si bruciano i libri, si finisce per bruciare anche gli uomini”.
In realtà i nazisti se la prendevano con le parole.
E proprio dalle parole dobbiamo ripartire. Possiamo scegliere le parole che ci raccontano. Possiamo scegliere se dipingere il nostro essere umani come agglomerati di rabbia e risentimento o come individui aperti alla vita e al mondo. Possiamo scegliere le parole inclusive.
Si chiama contro-narrazione, vuol dire cercare di tracciare una storia alternativa rispetto a quella che ci viene propinata dagli haters.
Un gruppo di studenti universitari e delle scuole superiori, supportato da VoxDiritti, ha dato vita sui nostri profili social a una campagna che a pochi giorni dal lancio aveva già totalizzato più di 200mila visualizzazioni.
Si intitola #Ispeakhuman. Io parlo umano.
Ripartiamo dalle parole.