Mai come in questi tempi le parole sono così centrali sulla scena pubblica, sociale, politica e culturale.
Mai come negli anni più recenti il rimescolarsi di provenienze, etnie, estrazioni sociali e culturali ha provocato così acute tensioni, rischiando di intensificare i legami tra simili e di allontanare la interazione e gli scambi tra diversi.
Lasciando sullo sfondo il dibattito teorico sul multiculturalismo o sulle soluzioni viceversa assimilazioniste, che ci vorrebbero – nelle loro versioni più radicali – tutti un pò “più uguali” e un po’ “meno diversi”, non è allora casuale che si sia tornati alle origini e a ridiscutere di quello che più di tutti pare essere il fattore di divisione più innato, pericolosamente quasi “naturale”, tra esseri umani, la razza.
Una parola, razza, che trova spazio in Costituzione quale elemento sul quale non possono radicarsi distinzioni tra i cittadini (ma, oggi si dice, tra esseri umani) dinanzi alla legge, come solennemente sancisce l’articolo 3 al suo primo comma, e che la nostra storia costituzionale ha abbracciato volendo assegnare alla razza una specifica valenza simbolica di netta, totale, rottura con il regime fascista previgente e con la sua cruda politica razziale.
Si deve allora tornare indietro e guardare al dibattito che si svolse in Assemblea Costituente per ricercare il senso di questa parola; una parola “maledetta”, come la definì l’onorevole Ruini, che sembra quasi “una postuma persecuzione verbale”.
Il significato della parola razza – che “suona tanto male […e] che fa pensare più che agli uomini, agli animali” (on. Targetti) – non venne mai precisato dai Costituenti, che si interrogarono piuttosto sull’opportunità di sostituirla con la nozione di stirpe, poi abbandonata per evidenti ragioni di eterogeneità semantica, e che, dall’altro, mai invece discussero della sua sovrapponibilità con altre nozioni impiegate dalle coeve Carte dei diritti, tra tutte quella di etnia.
In analoga direzione, si è mossa la Corte costituzionale, preferendo a chiarimenti di concetto sottolineare la precettività e la “forza” del principio di eguaglianza razziale.
Ma, forse, al di là della ricerca (invana) del contenuto e della definizione di una parola tanto controversa e dalle implicazioni così mutevoli a seconda della prospettiva dal quale la si guardi, ciò che conta, oggi, a 70 anni dall’entrata in vigore della Carta, è la valenza simbolica che i Costituenti con grande lucidità e lungimiranza decisero di attribuirle.
Da qui, allora, il grande e prezioso insegnamento che ci viene dai Costituenti.
Non ci si può arrestare alla ricerca di significati e di sensi. A prescindere da ciò che scegliamo di intendere con la parola razza – un sinonimo, o viceversa, di etnia, di colore della pelle, di religione, di cultura – ciò che conta per noi, oggi, è la sua capacità di rimarcare qualcosa che non vogliamo più. Una politica di odio, di discriminazione, di violenza, e, forse è bene ricordarlo sempre, di morte.
Non tutto infatti inizia e finisce con la ricerca e la rivelazione del significato di una parola.
È nostra responsabilità assegnare a quella parola il significato simbolico che le è connaturato e continuare, come dicevano i Costituenti, a fare uso di “questo termine per negare il concetto che vi è legato e affermare l’eguaglianza assoluta di tutti i cittadini” (on. Laconi).
Insomma, non è il significato della parola, ma la sua capacità di non essere più un motivo di divisione e di discriminazione tra le persone.