Il Consiglio d’Europa ha trasmesso l’ultimo rapporto 2012 sul sovraffollamento carcerario. L’Italia è risultata ancora una volta nella top ten di quelli con il maggior numero di detenuti per posti disponibili. Con 66.271 detenuti e 45.568 posti disponibili, ci sono 145 carcerati per ogni 100 posti (dati aggiornati al 2012). Peggio dell’Italia solo la Serbia, con un rapporto di quasi 160 detenuti per ogni 100 posti.
Per Vox, raccogliamo la riflessione di Maria Laura Fadda, magistrato del Tribunale di Sorveglianza di Milano.
Nei giorni scorsi la stampa italiana ha diffuso il rapporto del Consiglio d’Europa sulle condizioni di detenzione negli Stati membri definite preoccupanti in quanto caratterizzate da prigioni sovraffollate, in precarie condizioni di salute, con disturbi mentali e con un elevato tasso di suicidio. I media hanno senza eccezione evidenziato la gravità del dato emergente dalla relazione europea, secondo cui l’Italia si collocherebbe in testa alla graduatoria degli Stati con maggiore sovraffollamento, seconda soltanto alla Serbia. Ciò è vero, o meglio, più corretto sarebbe evidenziare che ciò è stato vero, nel senso che la situazione fotografata nel rapporto e’ quella presente nell’ anno 2012, talmente drammatica da comportare nel gennaio del 2013, la condanna dell’Italia per violazione sistemica dell’art. 3 della Cedu con la nota sentenza pilota Torreggiani.
Come è noto, la decisione della Cedu ha preso in esame e stigmatizzato l’intero assetto dell’esecuzione della pena in Italia, indicando le modifiche necessarie per rientrare nella “legalità”, con particolare riguardo all’eccessiva presenza in carcere di detenuti in custodia cautelare, pari circa al 40% delle presenze totali, quasi il doppio della media europea, allo spazio ridotto disponibile per ciascun detenuto, inferiore ai 3 mq a testa e al numero di ore che ciascun detenuto era costretto a permanere, in quelle condizioni, nelle camere di pernottamento, pari circa 22 al giorno. Può ben affermarsi che tale pronuncia, per il suo rilievo e l’autorevolezza della fonte, abbia segnato un punto di non ritorno per la materia penitenziaria.
La condanna e la moratoria di un anno, peraltro tra qualche giorno in scadenza, hanno costretto lo Stato italiano ad introdurre correttivi nel segno di una gestione degli Istituti di pena maggiormente rispettosa dei diritti dei detenuti e orientata alla piena attuazione dei principi dell’ordinamento penitenziario italiano (L. 23.7.75 n. 354) e delle Regole Penitenziarie Europee del 2006 che, pur non vincolanti, per gli Stati dell’Unione, costituiscono ormai regole codificate di indirizzo. E’ stata così attuata in tutte le carceri l’apertura delle camere detentive per almeno otto ore al giorno (quantomeno per i detenuti di non elevata pericolosità) ed è in corso una più razionale distribuzione dei detenuti nei 206 Istituti di pena italiani al fine di consentire la vicinanza al contesto familiare e ambientale di provenienza. Inoltre, e’ stato previsto che i detenuti possano uscire dal carcere durante il giorno, oltre che per lavorare, anche per svolgere attività di pubblica utilità non retribuite.
Oltre al tentativo di migliorare concretamente le condizioni di vita dei reclusi, il legislatore ha cercato di incidere sul sovraffollamento e particolarmente sui flussi di entrata e di uscita dal carcere, emanando disposizioni sia volte a limitare il ricorso alla custodia cautelare in carcere, qualora sia possibile disporre gli arresti domiciliari presso l’abitazione, sia abolendo le rigidità della legge ex Cirielli nei confronti dei recidivi reiterati, consentendo un più esteso accesso alle misure alternative alla detenzione. Pertanto, se al momento della condanna dell’Italia i detenuti italiani erano 66.028 a fronte di una capienza regolamentare di 44.073 posti, al 9.5.2014 quelli presenti sono diventati 59.859 e i posti disponibili, grazie alla ristrutturazione di alcuni reparti chiusi e alla costruzione di padiglioni nuovi, sono saliti a 49.443. L’analisi del dato numerico, fornito dall’Ufficio statistico del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, consente di evidenziare che il calo delle presenze ha riguardato soprattutto i condannati non definitivi, cioè persone in custodia cautelare che sono scese in totale a 21.252, mentre minore e’stata la flessione per i condannati definitivamente condannati. Difficile spiegare le cause di ciò; probabilmente la presenza in carcere di vaste aree di marginalità sociale e di stranieri non appartenenti agli Stati dell’Unione, che rappresentano il 30% dei detenuti totali e circa il 50% dei detenuti del Nord Italia, impedisce alla magistratura di sorveglianza la concessione dell’affidamento in prova e della detenzione domiciliare in quanto risulta impossibile costruire un percorso di reinserimento sul territorio se non sostenuto da interventi di tipo fortemente assistenziali che oggi gli enti locali o sanitari non sono pi˘ in gradi di apprestare.
La situazione attuale in ordine al sovraffollamento in Italia appare, dunque, diversa da quella risultante dal Rapporto del 2012, in quanto il trend di decrescita delle presenze, nonostante non sia stato adottato alcun provvedimento di clemenza seppure anche autorevolmente invocato, è stato nel tempo costante e non vi sono motivi, allo stato, per ritenere che debba improvvisamente cessare. Certamente, pur dando atto delle condizioni di vetustà dei nostri Istituti di pena, risalenti per il 20% ai secoli tra il 1200 e il 1500, per il 60% tra il 1600 e il 1800 e per il restante 20% tra il 1900 e il 2000, la problematica relativa al numero di mq a disposizione per ciascun detenuto, non è l’unica cui mettere mano. Difficile fare una previsione sulla decisione della Cedu sulla compatibilità dell’art. 3 con le condizioni attuali di detenzione in Italia, ma certamente il nostro Stato, in questa partita, si gioca un ruolo di credibilità internazionale in ordine alla permanenza tra gli Stati europei di civiltà avanzata. Del resto già per due volte il Regno Unito ha respinto richieste di estradizione sulla base del presupposto che i reclusi, ove estradati, sarebbero stati soggetti a condizioni di detenzione inumane. E’ necessario, dunque, uno sforzo concettuale di elaborazione di tutte le agenzie preposte, anche dell’Accademia, per ripensare, coerentemente alla grande tradizionale dottrinale italiana, le finalità e le caratteristiche della pena e altresì un impegno della magistratura tutta per attuale il dettato costituzionale di cui all’art. 27 della Costituzione.
Maria Laura Fadda