Come è risaputo ogni decisione è figlia del suo tempo e con la sentenza n. 12962 dello scorso 22 giugno, la Corte di Cassazione ha dimostrato ancora una volta che davanti a una società in continua evoluzione non è più possibile negare determinati diritti, soprattutto laddove questi aspirino a tutelare il preminente interesse del minore.
di Giulia Peverelli
Prima di affrontare le argomentazioni poste alla base di questa pronuncia, va ricordato che, quando lo scorso maggio la Camera ha definitivamente approvato il ddl Cirinnà sulle unioni civili, qualcosa finalmente si è mosso. Una vittoria, quella ottenuta dalla senatrice del Pd, che l’Italia agognava ormai da anni e che è stata fin troppo strumentalizzata da quella politica che soffoca le vere ragioni di libertà e uguaglianza a cui si vuole dar voce. C’è stato chi, per evitare l’equiparazione giuridica delle unioni civili al matrimonio, ha voluto sminuire il ruolo di questo nuovo istituto sulla base di opinioni che nascono da concezioni arcaiche e ormai consumate da cambiamenti e battaglie portate avanti da chi ha deciso, a suo tempo, di non rinunciare alle proprie libertà.
Insomma, una conquista che – come è stato più volte ribadito – ha aperto la strada a un lungo e faticoso cammino per raggiungere un traguardo che sgretoli quelle convinzioni che non ci appartengono più da tempo.
Tra le modifiche apportate all’originale disegno di legge appena ricordato, di rilevante impatto sociale e giuridico, è stata l’eliminazione dell’articolo 5 del decreto che, modificando l’articolo 44 della legge n. 183 del 1984, avrebbe dovuto estendere ai partner delle unioni civili l’applicazione della cd. stepchild adoption (istituto di diritto di famiglia con cui si concede la possibilità al coniuge di adottare il figlio dell’altro coniuge). Purtroppo questa forma di adozione, inseguito a diversi interventi parlamentari e poi governativi, è stata stralciata dal testo finale lasciando l’unico barlume di speranza in mano alla discrezionalità dei giudici e degli strumenti interpretativi di cui questi possono avvalersi.
L’occasione per dare il via libera a questa estensione giurisprudenziale dell’istituto è stata recentemente posta davanti all’attenzione della Corte di Cassazione dal Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Roma che si è opposto alla decisione del giudice di secondo grado di concedere l’adozione di una minore da parte di una partner stabilmente convivente con la madre della bambina.
Le due donne romane, conviventi dal 2003, erano state costrette a recarsi in Spagna per dare alla luce la bimba tramite il processo di procreazione assistita eterologa poichè in Italia, ancora oggi – nonostante la necessità per il diritto italiano di procedere di pari passo con lo sviluppo tecnico-scientifico che la nostra epoca richiede – la pratica è vietata. Inoltre la legge spagnola concedeva alla madre non biologica la possibilità di adottare la bambina e di attribuirle il doppio cognome.
Tornate in Italia, le due donne avevano chiesto il riconoscimento dell’adozione ottenuta all’estero e nel 2014, dopo che il Tribunale dei minorenni di Roma aveva concesso loro il proprio consenso facendo leva sulla tutela dei diritti della minore, anche la Corte d’Appello aveva confermato l’indirizzo della decisione di primo grado.
Avverso tale sentenza il Procuratore Generale della Repubblica proponeva ricorso per Cassazione deducendo due motivi di censura: il primo concernente la necessità di nomina di un curatore speciale della minore ai sensi dell’articolo 78 cpc per il potenziale conflitto di interessi del minore con il genitore; mentre il secondo verteva sull’errata interpretazione dello stesso articolo 44, lettera d (in relazione all’impossibilità dell’ affidamento preadottivo) della legge n. 183 del 1984 le cui condizioni per concedere l’adozione riguardavano situazioni differenti rispetto a quelle del caso in esame.
Con la già citata sentenza n. 12962 dello scorso 22 giugno, la Suprema Corte ha dichiarato l’evidente infondatezza del primo motivo sostenendo che l’apprezzamento dell’esistenza di un potenziale conflitto di interesse, qualora non previsto normativamente o non ricavabile dall’interpretazione coordinata di più norme, è rimessa in via esclusiva al giudice di merito e per tanto non è sindacabile dal giudice di legittimità quale è la Corte di Cassazione. Inoltre, richiamando una sentenza del 1992, la Corte ha sottolineato che il conflitto in questione non possa essere semplicemente presunto ma debba essere concreto, diretto, attuale e deve far sì che al vantaggio di un soggetto corrisponda il danno dell’altro; un aspetto, quest’ultimo, evidentemente non riscontrabile nel caso in esame.
Per quanto concerne l’interpretazione dell’articolo 44, lettera d) della legge n. 183 del 1984, abbracciando un’interpretazione decisamente più estensiva rispetto a quella proposta dal Procuratore Generale, la Corte Suprema ha fatto leva sul “best interest” del minore e sul fatto che il legislatore abbia voluto favorire il consolidamento dei rapporti tra il minore, i parenti o le persone che già si prendevano cura di lui. Dalla sentenza emerge poi la volontà del giudice di legittimità di conformarsi al il principio che va ad affermarsi nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, secondo il quale il rapporto affettivo che si sia consolidato all’interno di un nucleo familiare – qualunque esso sia – debba essere conservato anche a prescindere dalla corrispondenza con rapporti giuridicamente riconosciuti.
Infine, la Corte di Cassazione ha sostenuto che, coerentemente con il principio di non discriminazione, laddove sia concessa la possibilità di accedere all’adozione di casi particolari, non solo alle coppie sposate, ma anche alle persone singole e alle coppie di fatto, non vi sono motivazioni valide tali per cui vi debba esserci l’esclusione da questo istituto delle coppie omosessuali sulla base del fatto che, un’analisi che da rilievo all’orientamento sessuale, altro non è che una condotta discriminatoria.
La Corte di Cassazione con questa pronuncia ha dunque deciso di non nascondersi dietro ai pregiudizi dei più ma di assicurare un equo trattamento ai minori: che senso avrebbe negare a una donna convivente di crescere una bambina come una figlia per il sol fatto di non esserne la madre biologica? E soprattutto per quale ragione bisognerebbe privare una minore di vivere con persone che hanno combattuto per lei ancor prima della sua nascita? Queste domande risuonano così retoriche che sarebbe stato impensabile per un qualsiasi giudice non acconsentire alle richieste delle due donne e accogliere invece le censure poste in essere dal Procuratore della Repubblica, il quale, per altro, ha impugnato la sentenza della Corte d’Appello non perché contrario alla decisione nel merito, bensì per ottenere un’interpretazione insindacabilmente univoca della norma ed andare oltre ai contrasti presenti in dottrina e giurisprudenza.
Così laddove preconcetti e discriminazioni soffochino diritti e pari dignità, è necessario che pronunce di questa importanza urlino a gran voce l’eguaglianza, nella speranza che il legislatore possa un giorno prendere coscienza del fatto che i tempi sono cambiati e che certi stereotipi non sono altro che il retaggio di un sistema retrogrado che – oggi come oggi – non solo è superato, ma che attende di essere delegittimato da norme che garantiscano quei diritti contesi per i quali si è combattuto e si continuerà a lottare.