di Francesca Bergamo
Ogni due giorni e mezzo in Italia, viene uccisa una donna e sono 6.743.000 le vittime femminili, tra i 16 e i 70 anni, di abusi fisici o sessuali. Sono dati, che le cronache riportano ormai purtroppo abitualmente con evidenza drammatica.
Secondo l’ISTAT (ISTAT, 2007) il 14,3% delle donne italiane ha subito una violenza fisica o sessuale all’interno della relazione di coppia, nel corso della sua vita. Più in generale, in Europa, secondo i dati resi noti dall’Agenzia dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (FRA) lo scorso marzo, una donna su tre ha subito violenza fisica e/o violenza sessuale dai 15 anni in su. La percentuale sale al 43% nei casi di violenza psicologica.
La violenza sulle donne, e in specifico quella che prende forma nelle relazioni di coppia, sta dunque assumendo i connotati di una vera e propria emergenza sociale, sia dal punto di vista economico, che sanitario e psicosociale. È in questo quadro, che il presente elaborato prende vita, nel tentativo di descrivere un fenomeno, quello appunto della genesi della violenza nei rapporti di coppia, che ha sempre più bisogno di chiavi interpretative che orientino interventi di prevenzione e cura efficaci.
Gli studi sulla genesi della violenza nella coppia sono numerosi e diversi. Questo elaborato si pone l’obiettivo di prendere in considerazione un punto di vista peculiare: quello che considera la teoria dell’attaccamento, come una delle basi fondamentali per comprendere le dinamiche che possono scatenare la violenza all’interno della relazione di coppia. Dinamiche, che nascono da presupposti specifici, secondo gli studi che verranno presentati. Questo punto di vista, secondo diversi ricercatori in tutto il mondo, è particolarmente utile, come vedremo, per delineare la possibilità di evidenziare le coppie a rischio. E quindi per poter dar vita a programmi di prevenzione/intervento mirati.
Si calcola infatti che la violenza domestica, solo in Italia, abbia un costo sociale di circa 16.719.540.330 di Euro (Onlus Intervita, 2013), in termini di danni economici, sociali e sanitari. Si parla infatti di costi sanitari, di costi per i farmaci, di costi di ordine pubblico e giudiziari, di costi legali, di costi legati all’attivazione dei servizi sociali, di costi per la mancata produttività femminile e naturalmente di costi per le terapie di intervento psicologico.
Il presente elaborato ha dunque l’obiettivo di tentare di individuare le eventuali dinamiche che intervengono, in modo costante, nella formazione della violenza e nella sua messa in atto nelle relazioni affettive. Verranno così presi in esame diversi aspetti, supportando la corrente analisi con una serie di studi e di ricerche condotti in tutto il mondo negli ultimi vent’anni.
L’elaborato è diviso in due capitoli principali. Il primo si concentra sull’eziologia della violenza nella coppia. Verranno così esaminate le diverse tipologie di violenza, fisica e psicologica, che si possono scatenare nella relazione. Poi, verrà presa in considerazione la rilevanza dei ruoli dei due partner nel definire chi agisce e chi subisce la violenza. In questa prospettiva, verranno anche esaminati gli studi che si concentrano nella disamina di genere nel tentativo di inquadrare il fenomeno della messa in atto della violenza da un punto di vista femminile o maschile. Parimenti, si esamineranno le teorie che invece puntano sulla reciprocità per spiegare le dinamiche che caratterizzano le coppie a rischio di insorgenza di violenza.
Il secondo capitolo vuole invece esaminare le cause che intervengono nella determinazione di una coppia a rischio di violenza. In questa ottica, verrà presa in esame la teoria dell’attaccamento. Teoria, che verrà approfondita prendendo spunto da diversi studi, a partire dalla formazione degli stili di attaccamento nell’età adulta. Si prenderanno dunque in esame i diversi pattern della relazione diadica, e gli stili di attaccamento che connotano i partner a rischio. Due in particolare, emergeranno nella disamina, come maggiori predittori di violenza domestica: lo stile di attaccamento ansioso e quello evitante. Infine, ci si focalizzerà sulla disamina degli altri indicatori che intervengono nella genesi e nella formazione della violenza, con particolare attenzione al ruolo della dinamica vicinanza/distanza; alla funzione delle emozioni funzionali e disfunzionali, quali la rabbia; alla durata della relazione; alle capacità dei partner di comunicazione e di problem solving.
CAPITOLO 1
Eziologia della violenza nella coppia.
1.1. Tipologie di violenza nelle relazioni di coppia.
Se si individua nella violenza una delle dinamiche che affliggono di più gli esseri umani, e se si può concordare in linea generale con l’affermazione di Hannah Arendt, secondo cui “la pratica della violenza, come ogni azione, cambia il mondo, ma il cambiamento più probabile è verso un mondo più violento” (1969), tuttavia la violenza che si sviluppa all’interno delle relazioni di coppia, in particolare in questo contesto storico e sociale, assume delle valenze specifiche.
Converrà dunque, per analizzarla, utilizzare alcuni strumenti che la letteratura offre. Nella determinazione delle diverse tipologie di violenza esercitate all’interno della coppia, si distinguono la violenza fisica e quella psicologica.
Come misuratore generale di violenza fisica nella relazione, uno degli strumenti più utilizzati è il Conflict Tactics Scale (CTS, Straus, 1979) creato da Murray A. Straus per effettuare la prima grande indagine nazionale sulla violenza domestica nel 1979. Si tratta di un questionario autosomministrato, composto da 18 item che descrivono altrettanti comportamenti, divisi a loro volta in tre sottoscale: ragionamento, aggressione verbale, violenza fisica. Gli item indicano diversi comportamenti rappresentativi della violenza: lancio di oggetti; spintonamento; schiaffi; morsi; calci o pugni; colpire o cercare di colpire con un oggetto; percosse; soffocamento; minaccia con arma da fuoco o da taglio; uso di arma da fuoco o da taglio.
Per quanto riguarda la violenza psicologica, è bene citare le categorie di comportamento individuate da Follingstad et al. (1990), per definire l’abuso o la violenza psicologica contro le donne. Si tratta di attacchi verbali come la derisione, la molestia verbale, l’insulto, l’isolamento, la separazione dalle relazioni sociali di supporto, estrema gelosia e ossessività, controllo eccessivo del comportamento, minacce verbali di abuso, aggressione o tortura dirette al partner e alla sua famiglia, figli, amici, minacce ripetute di abbandono, divorzio, inizio di un’altra relazione, attacco all’autostima del partner con effetto colpevolizzante e conseguente senso di inadeguatezza, danneggiamento o distruzione degli oggetti di proprietà. Per valutare questi comportamenti Follingstad et al. (2005) hanno ideato un questionario, il Follingstad Psychological Aggression Scale (FPAS, Folligstad, 2005), formato da 102 item, 51 dei quali utili per indagare la perpetuazione della violenza psicologica, mentre gli altri 51 si concentrano sulla vittimizzazione.
Ci sono altri due ambiti della violenza di coppia che vengono usualmente presi in considerazione, soprattutto se la vittima è la partner femminile. Si tratta della violenza di tipo economico e di quella di tipo sessuale. La violenza economica consiste incomportamenti basati sempre sul controllo, tra cui è bene citare: limitare o negare l’accesso alle finanze familiari; occultare l’informazione sulla situazione patrimoniale e le disponibilità finanziarie della famiglia; vietare, ostacolare o boicottare il lavoro fuori casa. La violenza sessuale all’interno del rapporto di coppia presuppone invece l’imposizione di relazioni o pratiche sessuali indesiderate.
Entro tale quadro, molte delle analisi prendono in considerazione una dinamica di coppia in cui è la donna a essere vittima. Ma è davvero così? Nella determinazione delle dinamiche che preparano e favoriscono l’insorgere della violenza nella relazione, è bene individuare il ruolo dei due attori nella coppia.
1.2. Attore o vittima: una questione di genere.
Il fenomeno della violenza sulle donne è, purtroppo di drammatica attualità. L’Organizzazione Mondiale della Sanità riserva grande attenzione a questa piaga e nei mesi scorsi ha pubblicato un’ampia indagine sugli abusi fisici e sessuali subiti dalle donne. Si apprende così che nel 33,9% del campione, i casi di violenza subita dalle donne sono da attribuire alla mano del proprio compagno e che il 14,3% del campione totale di donne intervistate, è stata vittima di atti di violenza da parte del partner, ma solo il 7% lo ha denunciato. E infine, che la violenza domestica è la seconda causa di morte per le donne in gravidanza.
Come abbiamo visto nell’Introduzione, in Italia i dati relativi alla violenza quotidiana all’interno delle mura domestiche (ISTAT, 2007), confermano il dato globale. Così come l’analisi condotta in Europa (FRA), sempre riportata in Introduzione, da cui emerge un altro dato di interesse, e cioè che solo il 14% delle vittime ha denunciato alla polizia l’episodio di violenza più grave subito dal partner, percentuale che in Italia scende al 10%.
Altri dati mostrano poi come, nel computo degli episodi di violenza subita da donne, il numero di quelli commessi dal partner all’interno di una relazione di coppia sia solo di poco percentualmente inferiore a quelli commessi da sconosciuti. Di fatto, quindi si tratta di una radiografia molto critica dello stato di salute delle coppie in Italia e del livello di violenza che alberga al loro interno. In una precedente ricerca ISTAT (ISTAT, 2006), si evidenziava come vi sia una netta predominanza dell’aggressività del partner, rispetto al non partner, negli episodi di violenza non estrema.
Da questa fotografia, parrebbe emergere il ruolo del partner maschile come attore predominante della violenza all’interno della coppia. Parimenti, dai dati rilevati dalla ricerca condotta dall’Agenzia dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (FRA) qui sopra riportati, circa la predisposizione delle vittime a non denunciare il proprio partner autore di violenza, sembrerebbe che la donna, inserita in un rapporto di coppia violento, non sia spesso in grado di emanciparsi.
A una prima, superficiale analisi, sembrerebbe dunque configurarsi una questione di genere nella genesi e nell’attuazione della violenza di coppia.
Ma ci sono evidenze statistiche che, al contrario, aiutino a delineare la violenza subita dal partner maschile? E le impressioni riscontrate a proposito dell’asimmetria dei ruoli nella coppia possono essere confermate o no dall’acquisizione di nuovi dati sul “maschio vittima”? I dati disponibili sono pochi, almeno in Italia. È evidente che l’emergenza sociale rappresentata dalla violenza sulle donne costituisce di per sé una motivazione sufficiente per spingere a indagini approfondite in tal senso. Ma dal punto di vista di un’accurata indagine psicologica, la situazione si presenta come lacunosa. A fronte delle innumerevoli ricerche fatte su campioni femminili numerosi e significativi, infatti, le ricerche sulle vittime maschili sono poche e spesso poco accreditate. Una delle poche indagini condotte in Italia (Macrì et al., 2012), ha preso in esame un campione di 1058 soggetti maschi reperiti su tutto il territorio nazionale. Il 63,1% degli intervistati ha dichiarato di aver subito almeno un episodio di violenza fisica all’interno della coppia, nel corso della propria vita. Per quanto riguarda la violenza psicologica, invece, il campione ha denunciato una situazione che, a una prima lettura, può apparire allarmante: ben il 73,2% degli intervistati, infatti, ha dichiarato di aver subito violenza psicologica da parte del partner femminile. Ma è negli Stati Uniti d’America, che il fenomeno è stato soprattutto studiato. Una ricerca compiuta nel 2013 per conto del Dipartimento di Giustizia, per esempio, ha mostrato che il 14% delle vittime di violenza domestica è costituito dai partner maschili. In un’altra ricerca condotta da Straus e Gelles (1989) su 8145 famiglie americane, è risultato che nel 24% dei casi era il partner femminile ad agire la violenza. In entrambi i casi citati si tratta di violenza fisica. Infine, nello studio di Doumas, Pearson, Elgin e McKinley (2008), condotto su un campione di 70 coppie eterosessuali, il 36% delle donne ha riportato di essere autrice di violenza, considerando che il 24% degli uomini ha riferito di essere destinatario della stessa.
Nella determinazione dell’ipotesi di genere nella genesi e nello sviluppo della violenza domestica, i dati disponibili possono in effetti risultare insufficienti. Alcuni studi, tuttavia, hanno voluto porre l’accento, nell’interpretare i dati sopra citati, sulla teoria della simmetria di genere (Archer, 2000). L’analisi svolta da Archer ha voluto dimostrare una sostanziale simmetria nell’esercizio della violenza da parte di uomini e donne all’interno di una coppia. Anche se proprio l’autore, nell’affermare che è compatibile annoverare gli uomini tra le vittime di violenza domestica, si spinge tuttavia a evidenziare come non risulti risolta la questione se tale fenomeno si possa considerare come sporadico, o al contrario sia da configurarsi come abuso reciproco vero e proprio. Archer (2002) afferma che suscita perplessità l’ipotesi che gli uomini maltrattati subiscano violenza in forma protratta e sistematica. Tuttavia, sottolinea come gli uomini che subiscono violenza possano soffrire di danni fisici e psicologici assieme a problemi specifici associati con una mancanza di riconoscimento della loro condizione.
Perché, dal punto di vista di questo elaborato, è importante individuare gli attori della violenza all’interno della coppia e se esista un fattore di reciprocità? Come ha evidenziato Straus (2007), i vari sforzi e le varie iniziative per ridurre la violenza domestica, non stanno ottenendo i risultati sperati. Straus imputa questo fatto alla costruzione del luogo comune, che vede la violenza fisica tra partner come un fenomeno che derubrica gli uomini nelle vesti di abusanti e le donne in quelle di vittime. L’autore vuole quindi dimostrare come vi sia una simmetria tra i generi, sia nell’esercizio della violenza che nella sua eziologia. Ipotesi che, alla luce degli studi più recenti sulla teoria dell’attaccamento in età adulta, può trovare una sua fondata giustificazione.
Nello studio dell’eziologia della violenza domestica e più in generale nella coppia eterosessuale, infatti, concorrono diverse cause, tra le quali si possono annoverare disagio sociale ed economico, livello socio-culturale della coppia, livello e disfunzionalità della rabbia come motore di rivendicazione costante. Di seguito l’attenzione sarà focalizzata sulle dinamiche psico-relazionali, che concorrono allo sviluppo della violenza e dell’aggressività all’interno della coppia. Dinamiche che, come vedremo, non possono che essere imputabili a entrambi i partner e che hanno a che fare con gli stili di attaccamento reciproci sviluppati dai membri di una coppia nella loro interazione.
1.3. Le coppie a rischio. Caratteristiche endogene e ciclo della violenza.
Secondo diversi autori (Karlijn, Kuijpers, van der Knaap & Winkel, 2012) la relazione di abuso è spesso di natura bidirezionale: entrambi i membri di una coppia possono essere infatti perpetratori e/o vittime di violenza. Nonostante il fatto che le statistiche indichino che sono gli uomini a commettere violenza in misura maggiore, a volte appare difficile capire chi sia la vittima e chi l’abusante.
Nelle coppie a rischio sappiamo che i comportamenti aggressivi possono essere innescati in situazioni di minaccia, immaginaria o reale, di rifiuto, di separazione o di abbandono da parte del partner. Ma nel caso delle coppie connotate da una dinamica di abuso, non va considerato solo il senso di insoddisfazione percepito da uno o da entrambi i partner, ma vanno anche valutati il conflitto e la rabbia disfunzionale che possono entrare in scena nella messa in atto di comportamenti violenti; questi partner spesso riportano un forte senso di impotenza rispetto alla possibilità di modificare la situazione e di uscire dal circolo vizioso di negatività che si crea. È stato in effetti osservato come spesso le relazioni più disfunzionali siano paradossalmente anche le più stabili (Bartholomew, Henderson & Dutton, 2001).
Entro tale quadro, la teoria dell’attaccamento evidenzia quanto una relazione violenta sia caratterizzata dal fatto che le vittime di abuso si sentano, spesso, legate ai loro partner abusanti. Bowlby (1988) suggerisce che le situazioni di pericolo e di paura attivano il sistema di attaccamento e possono portare alla formazione di legami particolarmente forti, anche quando la stessa figura di attaccamento è la fonte di minaccia. La difficoltà ad abbandonare una relazione violenta potrebbe, inoltre, essere amplificata dalle esperienze passate che porterebbero i partner a sentire di non poter ricevere un trattamento migliore in altre relazioni o addirittura a incolparsi dell’abuso subito. Gli studi che hanno esaminato le caratteristiche delle vittime di abuso, hanno indicato dei modelli specifici nelle persone che non riescono a recidere un legame violento. La dipendenza e l’ansia nei confronti della separazione, caratteristiche dei soggetti con un attaccamento ansioso, giocano per esempio un ruolo essenziale, rendendo difficile, per costoro, abbandonare le relazioni abusanti. Il modello negativo del Sè, infatti, potrebbe portare a intensificare le condizioni necessarie a mantenere i legami di attaccamento anche nei confronti di un partner abusante (Castellano, Velotti & Zavattini, 2010).
Molto spesso sono le donne a trovarsi in questa situazione e a presentare uno stile di attaccamento ansioso. Donne, che altrettanto spesso non riescono a emanciparsi dal loro ruolo di vittime. Quando ciò avviene, tipicamente nella coppia si crea una dinamica che porta alla formazione del cosiddetto “ciclo della violenza”.
Il ciclo della violenza è da intendersi come “il progressivo e rovinoso vortice in cui la donna viene inghiottita dalla violenza continuativa, sistematica, e quindi ciclica, da parte del partner” (Walker, 1979). In questo ciclo, la fase di violenza acuta è preceduta da un periodo di costruzione del conflitto ed è seguita da una fase di calma e amore, nel corso della quale la tensione è assente. Una certa percentuale di vittime sperimenta questo ciclo più e più volte. Walker ha descritto i tre momenti del ciclo della violenza come segue:
- Fase dell’accumulo di tensione. E’ il primo momento della violenza verbale. L’uomo è irritato, sono presenti sentimenti di insofferenza e ostilità, che sfociano in forme di aggressività “tollerabili” e che trapelano sul piano della violenza verbale.
- Fase dell’esplosione della violenza. Spesso inaspettatamente, attivata da un’inezia, si scatena la violenza fisica, che destabilizza, confonde e terrorizza la donna.
- Fase della “falsa riappacificazione”. È sempre il partner maschile, a decidere quando inizia e quando finisce questa fase. Nei primi episodi è caratterizzata da pentimenti e richieste di perdono, con promesse di cambiamento e rinnovate dichiarazioni d’amore. Man mano che passa il tempo questa fase è sempre più breve, la donna diventa sempre più dipendente e l’uomo ha sempre più potere. La fase della falsa riappacificazione costituisce il rinforzo positivo che spinge la donna a restare all’interno della relazione violenta e in qualche modo soddisfa (soprattutto all’inizio) un suo bisogno di riabilitazione.
La teoria della Walker è basata esplicitamente sulla prospettiva di genere. Secondo questa prospettiva, la violenza domestica è caratterizzata da una violenza unilaterale, perpetrata dal partner maschile con l’obiettivo di dominare e controllare la moglie. La vittima è di solito descritta come una donna ansiosa, che dipende in gran parte dal suo partner violento, ha paura di essere abbandonata e ritiene che le cose andranno meglio in futuro.
Ma il ciclo della violenza può insorgere anche nelle coppie dove, invece, ci sia simmetria di genere nella responsabilità dell’abuso? Secondo i sostenitori della simmetria nella coppia abusante (Straus, 2007) in tali relazioni la violenza assume la forma di una risposta emotiva a un’esperienza spiacevole; i cicli di vittimizzazione sono dunque caratterizzati da una reciproca aggressione emozionale. Diversi aspetti, riguardanti la labilità affettiva, come uno stile di attaccamento insicuro, rabbia o aggressività e un comportamento violento della vittima nei confronti del partner abusante, sono stati segnalati come possibili fattori di rischio per una (ri)vittimizzazione nella relazione di coppia.
Alla luce di quanto esaminato, è possibile delineare le caratteristiche che le coppie a rischio di abuso presentano? “Sappiamo che il benessere delle relazioni e degli stessi partner è fortemente connesso alla capacità di regolare gli stati emotivi presenti nella coppia; in tal senso la comprensione delle emozioni turbolente e potenzialmente distruttive, che connotano i legami nei quali si agisce la violenza, costituisce oggi una sfida ardua per gli stessi partner, per i clinici e per i ricercatori”(Velotti, 2013).
Hinde (1997) sostiene che una relazione si possa definire come un sistema chiuso o aperto, a partire dalle sue proprietà emotive. I sistemi aperti presentano bassi livelli di conflittualità e alti livelli di affettività, calore, sicurezza e autonomia. I sistemi chiusi, al contrario, sono tipici delle coppie disfunzionali, che presentano emozioni disadattive, alti livelli di conflittualità, insicurezza ed eccesso di dipendenza. I legami violenti, a loro volta, sono sistemi rigidi e poco flessibili (Sander, 2002). Ogni coppia violenta “intrappola” i partner all’interno di circoli viziosi. Nel valutare quindi una relazione di coppia, secondo alcuni studiosi (Marcus & Swett, 2003), non bisogna considerare solo le emozioni positive o negative, quali uniche attivatrici di violenza: è, infatti, possibile che anche un deterioramento nella qualità emotiva della relazione aumenti la vulnerabilità alla violenza. Occorrerà ora esaminare quali specifici stili di attaccamento intervengano nella determinazione di una coppia a rischio. Esame, che viene rimandato al capitolo successivo.
Qui, in sintesi, si può affermare che la violenza all’interno della relazione di coppia può essere compresa, considerando due principi fondamentali dell’attaccamento. In primo luogo, il fatto che l’attaccamento soddisfa un bisogno fondamentale per la sopravvivenza: da questo punto di vista, quindi, la tenacia del legame di attaccamento è indipendente dalla qualità del rapporto. In secondo luogo, è bene tenere in considerazione il fatto che le persone, i cui bisogni di attaccamento sono stati frustrati, possono agire violentemente per riconquistare la vicinanza del partner, di cui era stata percepita la perdita o l’allontanamento.
CAPITOLO 2
Stili di attaccamento e sviluppo della violenza nella coppia: un’ipotesi di correlazione.
2.1. Formazione degli stili di attaccamento nell’età adulta
Il legame di attaccamento adulto spinge a ricercare il contatto e la vicinanza di una persona specifica, non sostituibile con altre; ciò appare evidente soprattutto in situazioni di disagio e di stress, quando cioè si attiva la richiesta di accudimento nei confronti del proprio partner. Se la relazione è minacciata da forze esterne o interne, c’è angoscia, gelosia e rabbia. L’insieme di strategie attraverso cui un individuo regola i propri stati emotivi è strettamente correlato con il suo stile di attaccamento e con i suoi modelli operativi interni. Gli individui che presentano uno stile di attaccamento insicuro hanno delle rappresentazioni di sé come non amabile e dell’altro come non disponibile e insensibile. Questi individui sentono che la relazione può rappresentare una minaccia per la propria autonomia, oppure che il proprio partner non sarà in grado di dare sollievo alle loro preoccupazioni circa il fatto che l’intimità e la vicinanza sono costantemente minacciate.
Ma come si formano gli stili di attaccamento in età adulta? La letteratura evidenzia il ruolo dell’attaccamento nella comprensione della relazione di coppia. L’amore può essere definito come “uno stato dinamico che comprende i bisogni di entrambi i partner e le loro capacità di attaccamento, accudimento e sessualità” (Mikulincer, 2006). In questa prospettiva, gli studi evidenziano l’importanza dell’attaccamento stesso come sistema motivazionale connesso al bisogno che gli esseri umani hanno di garantirsi la vicinanza e la disponibilità affettiva di una persona significativa (Hughes, 2007; Cassidy & Shaver, 2008).
Lungo tutto l’arco della vita, le persone stabiliscono dei legami preferenziali, chiamati “legami di attaccamento”, a cui sono affidate quattro funzioni fondamentali: la ricerca e il mantenimento della vicinanza, la funzione di rifugio sicuro, la protesta per la separazione e il ruolo di base sicura. Il legame dell’attaccamento nell’adulto, proprio come quello nei bambini, spinge a ricercare la vicinanza di una persona specifica che non è sostituibile con le altre. Si tratta di una funzione di protezione, che permette all’individuo di sentire che il partner è emotivamente vicino. La letteratura a questo proposito ha messo in luce che nelle relazioni di coppia il legame di attaccamento si sviluppa attraverso una serie di sequenze: è necessario che durante la relazione, le quattro funzioni essenziali del legame di attaccamento vengano trasferite progressivamente al partner (Weiss, 1991; Cassiba, 2003; Barone & Del Corno, 2007; Zeifman & Hanzan, 2008).
Dunque, se si considerano le relazioni di coppia come legami di attaccamento, bisogna evidenziare la funzione regolatrice che queste relazioni hanno nel mantenere l’omeostasi di ciascun individuo. Gli studi condotti a riguardo (Schore, 2003; Velotti, 2009) hanno dimostrato come gli individui che si trovano a vivere relazioni sentimentali soddisfacenti godano di maggiori livelli di benessere. Risulta evidente quindi il peso fondamentale che l’attaccamento ricopre nella regolazione delle emozioni, la cui eziogenesi va fatta risalire alle esperienze precoci degli individui con i loro caregiver. Tali esperienze vengono interiorizzate in schemi, chiamati modelli operativi interni, che nel tempo modellano e influenzano le modalità di ingaggio nelle relazioni interpersonali e le strategie per la gestione delle emozioni (Mikulincer et al., 2005). I modelli operativi interni possono essere intesi come una base di conoscenza, grazie alla quale è possibile modellare le esperienze successive (Bowlby, 1973): esperienze che, dettate dalla vita quotidiana, costituiscono insieme ai modelli sopra descritti la base per la formazione dei legami affettivi anche nell’età adulta. E’ possibile ipotizzare che i modelli operativi interni influenzino la regolazione emotiva almeno in due differenti modi. In primo luogo, essi intervengono nella percezione e nell’interpretazione dell’emozione. In secondo luogo, possono influenzare la coerenza della comunicazione emotiva. La formazione degli stili di attaccamento è dunque correlata con le prime esperienze vissute dal bambino con il caregiver, con la conseguente formazione dei modelli operativi interni e con la successiva “messa a punto” di nuove strategie modellate anche in base alle esperienze personali cui la vita ci mette di fronte.
Il legame di attaccamento tra i partner ha una duplice natura, quella auto e quella eteroregolativa: ciascuno dei due partner partecipa, cioè, all’autoregolazione dell’altro, ne conferma e ne definisce il Sè, contribuendo alla stabilizzazione di un senso di coesione interna. Va da sé che si tratta di un processo bidirezionale, da cui ciascuno dei due attori viene influenzato. Secondo Sourfe (1996), l’autoregolazione va spiegata come parte di un circuito che comprende l’autostima e la fiducia in se stessi. Le relazioni di attaccamento fanno sì che, attraverso la fiducia che si ha nel caregiver, si sviluppi la fiducia in se stessi. Queste relazioni di attaccamento, quindi, costituiscono il contesto all’interno del quale ha luogo l’acquisizione delle abilità di regolazione emotiva. È necessario sviluppare un’adeguata capacità di regolazione delle emozioni per ottenere un certo equilibrio interno tra senso di distanza e vicinanza psicologica in rapporto agli altri e per sviluppare quindi rapporti “sani” (Zavattini, 2008). L’eccessiva vicinanza così come l’eccessiva distanza, indebolisce il Sè psicologico, che rimane vulnerabile alla possibilità di contenere gli affetti (sia negativi sia positivi) nelle relazioni interpersonali (Fonagy et al., 2002). Anche Lichtenberg (1989; 2009) attribuisce al sistema dell’attaccamento la funzione fondamentale di regolazione degli affetti. Secondo l’autore, lo sviluppo del sistema motivazionale dell’attaccamento contribuisce a determinare il senso personale di sicurezza e di valore che si dà a se stessi.
Il sistema adulto-adulto, diversamente da quello bambino-caregiver, deve tener conto di strategie di autoregolazione già strutturate, sulla base delle rispettive esperienze pregresse, in entrambi i membri della diade. In quest’ottica le relazioni sentimentali tra adulti vengono intese come dei nuovi e specifici legami d’attaccamento (Castellano, Velotti & Zavattini, 2010). Questi nuovi legami assumono la funzione fondamentale di dare ai partner un senso di sicurezza di fiducia, di sostegno (Mikulincer & Goodman, 2006; Zeifman &Hazan, 2008). Le relazioni significative tra adulti sono dunque legami simmetrici, poichè i partner sono sullo stesso piano. Il bagaglio di rappresentazioni dell’attaccamento con cui ogni partner si presenta nella relazione, è alla base del funzionamento e della regolazione della coppia adulta.
2.2. Analisi dei diversi stili di attaccamento che intervengono nella strutturazione della relazione.
Nella costruzione dei processi di regolazione emotiva, ciascun individuo, indipendentemente dalla sua età, si affida alle proprie figure di riferimento (Mikulincer & Shaver, 2008). La teoria dell’attaccamento ha posto l’attenzione sulle motivazioni e sulle modalità attraverso cui una persona che sperimenta disagio è spinta a ricercare la propria figura di attaccamento, capace di regolare la sensazione di disagio, fornendo un’emozione positiva, e di ripristinare il senso di sicurezza, regolando la vicinanza/distanza ottimale. Il concetto di regolazione della vicinanza/distanza è stato utilizzato da Mary Ainsworth (e.g., Ainsworth et al., 1978), per evidenziare il modo in cui il bambino regola i propri stati emotivi mantenendo un grado di vicinanza/distanza dalla figura d’attaccamento per lui ottimale. La teoria di vicinanza/distanza ottimale si può applicare anche alla relazione di coppia. Qui, però, è bene parlare di distanza e/o vicinanza emotiva che i partner sentono essere funzionale alla loro relazione (Castellano, Velotti & Zavattini, 2010). In questo senso, la posizione in cui i partner si collocano lungo il continuum dato dai poli della distanza e della vicinanza, costituisce un utile indicatore della salute comportamentale ed emotiva della coppia. Per comprendere il funzionamento della relazione, bisogna precisare che non tutti i partner ricercano nella coppia la stessa sensazione di vicinanza e intimità. La teoria dell’attaccamento sottolinea il ruolo delle differenze individuali, mettendo in luce come ogni coppia sia caratterizzata da una sorta di equilibrio che viene raggiunto, rispettando quella che ciascun partner percepisce come la vicinanza/distanza ottimale (Bouthillier et al., 2002; Fincham, Beach & Davila, 2007).
Ove si instaura un equilibrio tra i due poli, la coppia si dimostra in grado di gestire la distanza/vicinanza, e quindi l’insieme delle emozioni attachment-related. Se ciò non avviene, si possono attivare “pattern disfunzionali, poiché i due partner non trovano un loro assetto rispetto alla distanza/vicinanza e alle emozioni che vengono attivate nel contesto dell’attaccamento” (Velotti, 2013).
Equilibrio o disequilibrio sono correlati con gli stili di attaccamento che i membri della coppia presentano. Bartholomew (1990) crea un modello bidimensionale per comprendere e descrivere i diversi stili di attaccamento nell’età adulta. L’autrice ha sistematizzato la concezione di Bowlby dei modelli operativi interni in uno schema a quattro categorie. Da questo schema sono stati definiti quattro pattern prototipici di attaccamento, partendo da due dimensioni: la positività del modello di Sé e la positività del modello degli altri. La positività del modello di Sé indica il grado in cui una persona ha interiorizzato la propria autostima. Il modello di sé è quindi associato con il grado di ansia e dipendenza per l’approvazione degli altri nelle relazioni sentimentali. La positività del modello legato agli altri indica il grado in cui il soggetto percepisce l’ambiente esterno come disponibile e di supporto. È proprio quest’ultimo, il modello associato alla tendenza a cercare o evitare vicinanza nelle relazioni. Elencando i quattro modelli individuati, si ottiene la seguente classificazione.
- Il modello sicuro (visione positiva di sé e degli altri): è caratterizzato da un’elevata autostima e dalla capacità di stabilire e mantenere legami intimi con gli altri senza perdere il senso di sé.
- Il modello timoroso (visione negativa di sé e degli altri): è caratterizzato da una bassa autostima e dall’evitamento di intimità, attivato dalla paura del rifiuto da parte degli altri. Questa paura, però, è associata a un desiderio di contatto sociale e di approvazione: ne consegue che tali soggetti presentano un atteggiamento ambivalente, che oscilla tra bisogno di ottenere vicinanza e quello di creare distanza.
- Il modello preoccupato (visione negativa di sé e visione positiva degli altri): è caratterizzato da una bassa autostima, da un’eccessiva dipendenza amorosa e dalla costante ricerca di approvazione nelle relazioni sentimentali. I portatori di tale modello, necessitano dunque di partner ipercoinvolti.
- Il modello distaccato o evitante (visione positiva di sé e visione negativa degli altri): è caratterizzato da una compulsiva fiducia in se stessi e da una sottovalutazione dell’importanza delle relazioni intime, usata come meccanismo di difesa.
Nell’esaminare il rischio di violenza nella relazione, la letteratura fornisce diversi esempi sull’importanza di comprendere e indagare l’impatto dello stile di attaccamento di un partner, combinato con lo stile di attaccamento dell’altro, (Wilson et al., 2013). Da questi studi è emerso come la maggior parte degli individui tenda a scegliere il partner che presenta uno stile di attaccamento simile. Nella disamina della disfunzionalità di una coppia, va quindi considerata la diade, con i rispettivi stili di attaccamento, che vengono agiti e che coagiscono, e non solo lo stile che ciascun partner presenta di per sé. Secondo Wilson et al. (2013) le diadi si presentano nel modo seguente:
- Diade di attaccamento sicuro-sicuro: sono le coppie caratterizzate dal più basso livello di aggressività interna, in cui ciascun membro mostra fiducia in se stesso e nella relazione. Tali individui si sentono capaci di offrire e meritare amore e sostegno.
- Diade di attaccamento sicuro-insicuro: queste coppie presentano livelli intermedi di aggressività interna. In queste relazioni, gli individui hanno una forte dipendenza dal partner, unita a una crescente insoddisfazione per il sostegno e l’amore ricevuto.
- Diade di attaccamento insicuro-insicuro: queste coppie presentano strategie di regolazione emotiva, utili per garantire a ciascun partner modalità di espressione delle emozioni compatibili con le proprie possibilità di regolarle. Possibilità, che il più delle volte falliscono, portando questa diade a delinearsi come quella a maggior rischio di violenza sia fisica che psicologica.
È dunque lo stile di attaccamento, sia personale che diadico, ad essere coinvolto direttamente nella formazione e nella manifestazione di violenza in una coppia. Parimenti, la presenza di determinati stili di attaccamento può risultare un fattore predittivo di violenza. In particolare, l’associazione di un partner maschile con uno stile di attaccamento evitante, con un partner femminile con un attaccamento ansioso, si è dimostrata essere un forte fattore di rischio per il manifestarsi di violenza domestica, come verrà illustrato nel paragrafo successivo.
2.3. Forza e tipologia dei legami di attaccamento nelle relazioni violente.
La violenza, per ciascun essere umano, è una delle esperienze più traumatiche e disorganizzanti. Se poi è agita o subita all’interno di una coppia, è ancor più devastante, poiché mina alle radici quello che viene percepito come un approdo sicuro, protetto, difeso. Dalle evidenze di diversi studi, è ormai acclarato che alcune dinamiche, nelle quali sono coinvolti soprattutto gli stili di attaccamento, sono potenzialmente considerate predittrici di violenza nella coppia. Diversi studi hanno per esempio dimostrato che il rischio aumenta quando i due partner presentano l’uno, uno stile di attaccamento ansioso e l’altro, evitante (Doumas, Pearson, Elgin & McKinley, 2008). In questo tipo di relazione la rabbia crescente e la violenza attuata possono essere viste come un cortocircuito del sistema di controllo all’interno della coppia, accompagnato da una bassa capacità di problem solving e di comunicazione.
Secondo Shaver e Mikulincer (2011), le persone con attaccamento ansioso tenderebbero a essere ambivalenti nei riguardi del potere e del dominio; da un lato, infatti, vorrebbero avere il controllo della relazione, ma dall’altro possono temere di ottenerlo, perché ciò potrebbe provocare il risentimento del partner, e quindi costituire una minaccia per la stabilità della relazione. Le persone con un attaccamento evitante tenderebbero invece verso l’autonomia e la distanza, la visione critica degli altri, e la percezione degli altri come oggetti da usare strumentalmente per la soddisfazione dei propri bisogni.
La dinamica che si attiva in presenza di un partner ansioso e di uno evitante nella coppia, può essere descritta nel modo seguente:
- Il partner ansioso, avvertendo una minaccia o una sensazione di pericolo per la sopravvivenza della relazione, sperimenta uno stato di forte disagio e dunque ricerca la vicinanza dell’altro partner, sua figura di riferimento, per riguadagnare un senso di sicurezza emotiva (Simpson& Rholes, 1994).
- Il partner evitante, dal canto suo, percepisce le richieste come eccessive e ingiustificate e reagisce svalutando i bisogni espressi dal suo compagno.
- Si crea così una sorta di circolo vizioso, nel quale il partner ansioso continuerà a iperattivarsi con richieste sempre più insistenti di vicinanza, mentre il partner evitante reagirà disattivando le richieste ricevute, in un contesto emotivo non flessibile e permeato di ansia.
Questo quadro ha ricevuto poi una certa conferma anche da uno studio condotto da Wilson, Gardner, Brosi, Topham e Busby (2013), che ha preso in esame la relazione tra attaccamento diadico nell’età adulta e comportamenti violenti e aggressivi nella coppia. Lo studio ha evidenziato come gli individui che si definiscono ansiosi-ambivalenti tendano a vedere se stessi come deboli e sempre attanagliati dal dubbio e come le diadi costituite da uno dei due partner con attaccamento insicuro, presentino livelli più elevati di aggressività rispetto alle diadi con partner sicuro/sicuro. Tra tutti i gruppi, le diadi con uno stile di attaccamento insicuro/insicuro presentavano il livello più alto di violenza sia fisica che relazionale. In particolare, gli individui con stili di attaccamento considerati più insicuri (ad esempio, evitante e ansioso/ambivalente) sono risultati più propensi a usare la violenza relazionale verso il partner. L’attaccamento nell’età adulta è risultato dunque essere, secondo questa ricerca, un fattore di previsione per la violenza all’interno della coppia.
Alcuni studi, come quello di Bond e Bond (2004), parrebbero rilevare una differenza di genere nella dinamica vittima/abusante. In tale ricerca, le donne vittime di violenza presentavano in gran parte uno stile di attaccamento ansioso (56,1% del campione), mentre tra i maschi abusanti è emerso prevalentemente lo stile evitante (48,8%).
Altri studi invece parrebbero non evidenziare la correlazione maschio-evitante-abusante/femmina-ansiosa-vittima. Una ricerca condotta da Holtzworth-Munroe, Stuart e Hutchinson (1997), sulla funzione dello stile di attaccamento, della dipendenza e della gelosia in partner violenti, ha evidenziato che tali soggetti presentano stili di attaccamento più insicuri (preoccupati e disorganizzati), maggiore dipendenza, minore fiducia nel loro matrimonio e maggiore gelosia verso il partner. Tali individui si sentirebbero dunque minacciati dal pericolo di perdere la figura d’attaccamento: minaccia, alla quale reagirebbero con la rabbia e la messa in atto di comportamenti violenti. Coloro che, invece, hanno uno stile di attaccamento ansioso, potrebbero più probabilmente percepire come rifiuto un comportamento ambivalente da parte di un partner: fattore, questo, di instabilità, che li renderebbe maggiormente a rischio di diventare abusanti. A sostegno di questa considerazione, alcuni riscontri empirici indicano che gli uomini che commettono un abuso hanno per lo più un attaccamento di tipo ansioso, che si attiverebbe soprattutto per gelosia e paura dell’abbandono (Murphy, Meyer & O’Leary, 1994; Dutton, 2006). Secondo questa interpretazione, lo stile di attaccamento ansioso sarebbe associato a una dinamica abusante, poiché tali soggetti si presentano come costantemente preoccupati di un rifiuto e dell’abbandono da parte della figura di riferimento. La minaccia della perdita agirebbe dunque da catalizzatore per un’iperattivazione del sistema d’attaccamento (Mikulincer & Shaver, 2011), con la presenza di alti livelli di emozioni negative, inclusa la rabbia. In sintesi il comportamento abusante appare dunque “in linea con l’atteggiamento delle persone ansiose e con il loro stile controllante” (Velotti, 2013).
È ora tempo di esaminare lo stile di attaccamento evitante che può essere, anche questo, prerogativa dell’abusante. Secondo la letteratura, gli individui evitanti sono soggetti che tendono a difendersi dalla minaccia data dalla frustrazione dei bisogni d’attaccamento, svalutandone l’importanza e, insieme, minimizzando la rilevanza dei legami affettivi. L’evitamento è poi collegato alla presenza di strategie molto potenti di controllo della rabbia (Mikulincer, 1998), che potrebbe essere scatenata dal fallimento delle strategie di disimpegno (Kobak & Sceery, 1988). Se tali strategie falliscono, questi individui potrebbero anche risultare indifferenti/sordi alla sofferenza del partner e disattivare la possibilità di percepire la propria crudeltà mentale e fisica (Fonagy, 2001; Lawson & Brossart, 2009). Come vedremo in seguito, alcuni studi collegano poi lo stile evitante della vittima al rischio di rivittimizzazione (Kuijpers, van der Knapp & Winkel, 2012).
In realtà, per quanto riguarda le vittime di abuso, gli studi hanno prevalentemente evidenziato una dominanza dello stile di attaccamento ansioso. Altre ricerche hanno poi rilevato, in questi soggetti, una prevalenza degli stili preoccupato e spaventato (Henderson, Bartholomew & Dutton 1997; Bookwala & Zdaniuk 1998). In particolare, l’attaccamento preoccupato è risultato essere predittivo di violenza, indipendentemente dal genere e dallo stile di attaccamento del partner. Gli individui preoccupati, infatti, sono combattuti tra il bisogno di amore e di sostegno da parte degli altri e la paura di non vedere questo bisogno gratificato. Pertanto, essi possono diventare sempre più esigenti e potenzialmente aggressivi, se i loro bisogni di attaccamento non vengono soddisfatti. Inoltre, gli individui preoccupati possono essere più disposti a tollerare abusi fisici e psicologici da parte del partner e potrebbero incorrere nel rischio, sempre più elevato, di tollerare e (a livello inconscio) anche di sollecitare, abusi; infine, possono accettare di rimanere in relazioni violente a causa della loro tendenza a giustificare l’abuso da parte di un partner idealizzato. È proprio la tendenza a idealizzare il partner, infatti, che li può portare a crearsi aspettative irrealistiche riguardanti la capacità del proprio partner di cambiare (Henderson, Batholomew, Trinke & Kwong, 2005).
Tornando ai soggetti ansiosi, va rilevato che questi individui tendono a provare dipendenza e ansia da separazione. Per costoro, può risultare quindi assai difficile abbandonare le relazioni abusanti, poiché a causa del modello negativo del Sé che possiedono, possono essere spinti a esasperare o a intensificare le condizioni necessarie a mantenere i legami d’attaccamento anche nei confronti di un partner abusante. Queste persone non soltanto possono arrivare a credere che la violenza subita sia giustificata, ma possono anche rispondere positivamente alle espressioni di dispiacere e di pentimento dell’aggressore, che a volte seguono l’episodio di violenza (Doumas, Pearson, Elgin & McKinley, 2008).
Grazie alla teoria dell’attaccamento si può dunque tentare di comprendere le motivazioni che inducono una vittima a permanere in una relazione di coppia dove viene abusata e, al contempo, esaminare le dinamiche che intervengono nella volontà di due partner di non mettere in discussione un legame che provoca sofferenza, dolore, umiliazione, vergogna (Castellano, Velotti & Zavattini, 2010). Come in effetti evidenziato da Bowlby (1973), la forza delle relazioni non è necessariamente legata alla loro qualità; le vittime d’abuso, infatti, si sentono, nella maggior parte dei casi, assai legate ai partner, nonostante li temano (Mitchell, 2002). Relazioni poco soddisfacenti rimangono stabili perché per i partner diventa impossibile rompere la relazione primaria, a causa delle loro esigenze emotive e del loro bisogno di attaccamento (Davila & Bradbury, 2001). Si tratta di legami affettivi tossici, in cui uno dei due partner presenta una scarsa considerazione di sé e forti preoccupazioni riguardo al possibile abbandono; questo soggetto può avvertire il costante bisogno di una figura d’attaccamento al suo fianco, perché la sua possibile assenza rappresenterebbe una minaccia di perdita, di mancanza d’interesse e di valore. Se l’altro partner evita il contatto empatico e rifiuta la vicinanza, percepiti come oppressivi ed eccessivi, il nostro soggetto potrebbe scegliere di restare comunque nella coppia, piuttosto che rinunciare ad avere accanto la figura di riferimento. Una scelta, che non verrebbe messa in discussione, neanche se il partner evitante iniziasse ad agire comportamenti aggressivi e forme di maltrattamento psicologico o fisico: è infatti plausibile che sulla base della scarsa considerazione che ha di sé, il soggetto ansioso finisca per ritenere di non poter meritare altro all’interno di un legame.
Quale, invece, il vissuto delle persone violente? Bowlby (1988) ha aggiunto chei soggetti abusanti potrebbero presentare anch’essi un attaccamento ansioso-ambivalente al partner, il che farebbe sperimentare loro un’intensa paura di perdere la persona amata; da qui, la possibilità di comportamenti estremi, come quelli aggressivi e violenti, finalizzati al controllo e a impedire l’abbandono della relazione. Si tratta di reazioni evidentemente disfunzionali, ma che presentano una loro stabilità; i partner coinvolti in queste dinamiche, infatti, dichiarano spesso di avvertire un senso di impotenza rispetto alla possibilità di modificare la situazione (Bartholomew, Henderson & Dutton, 2001).
Esaminata dunque la funzione dello stile di attaccamento nella formazione e nell’insorgenza di violenza in una relazione, non possiamo non porci una domanda: è sufficiente la teoria dell’attaccamento per spiegare la dinamica della violenza nella coppia? In effetti, altri fattori (indicatori) intervengono: si tratta di emozioni e pattern messi in atto dai singoli partner, che interagiscono con le dinamiche di attaccamento nelle relazioni disfunzionali violente, configurandosi come fattori di rischio capaci di facilitare l’insorgere della violenza. Indicatori, che verranno esaminati nel paragrafo successivo.
2.4. Nascita e formazione della violenza nella coppia: ruolo degli indicatori che interagiscono con lo stile di attaccamento.
Come funzionano le coppie coinvolte in modo stabile in relazioni violente? Che ruolo hanno le emozioni di ciascun partner e come vengono regolate? Diverse ricerche hanno sottolineato che le coppie violente presentano alcune caratteristiche ricorrenti, quali la difficoltà di regolazione e carenze nella capacità di mentalizzazione e sintonizzazione. Zavattini, Velotti e Castellano (2010) spiegano come siano stati individuati alcuni elementi fondamentali nella comprensione della violenza nelle relazioni sentimentali. Gli autori ipotizzano che la violenza possa essere l’esito di emozioni disregolate, in un sistema di coppia rigidamente organizzato. Coppia, che presenta inoltre modalità scarsamente flessibili di interazione.
Come già esaminato nel primo capitolo, è possibile distinguere diverse modalità di messa in atto dei comportamenti violenti: dalla vessazione psicologica (insulti, critiche incessanti, umiliazioni, gelosia patologica, isolamento, intimidazioni e, infine, controllo del partner) sino alla violenza fisica sotto forma di percosse, violenza sessuale, fino a minacce di morte. Spesso, i comportamenti violenti si ripetono nel tempo, diventando costanti e ripetitivi (Johnson, 2006). Ognuno di questi comportamenti è costellato di emozioni intense, spesso sperimentate contemporaneamente; in questi momenti, infatti, paura, rabbia, dolore, amore, odio, vergogna emergono e sono tutte emozioni difficili da controllare, da comprendere, da regolare.
Come evidenziato nel paragrafo precedente, nell’eziogenesi della violenza nella relazione di coppia, un ruolo centrale spetta ai rispettivi stili di attaccamento dei partner e alla loro interazione. Ma altri indicatori aiutano nella determinazione delle coppie a rischio: si tratta di parametri qualitativi, che rilevano lo stato di salute o di tossicità di una coppia. Tra questi rivestono un ruolo importante secondo la letteratura le strategie di avvicinamento e allontanamento interpersonale, il ruolo di emozioni, quali rabbia e gelosia, la durata della relazione, e infine le capacità di comunicazione e problem solving esercitate dai partner. Esamineremo, ora, ciascuno di questi indicatori.
a. Strategie di distanza e vicinanza.
In una ricerca condotta da Doumas et al. (2008), la violenza viene identificata come mezzo per regolare la vicinanza e la distanza tra i partner. In particolare, si è verificato come le divergenze tra i partner sulla voglia d’intimità da una parte e la distanza socioemotiva dall’altra, possano servire da catalizzatori per lo sviluppo di violenza domestica. Come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, gli adulti, come i bambini, hanno la tendenza a cercare e a mantenere la vicinanza e il contatto con le figure di attaccamento specifiche, per promuovere la sicurezza fisica e psicologica. Quando questi bisogni di attaccamento sono minacciati, gli individui cercano di riconquistare il livello di intimità e di prossimità desiderato. Così, una minaccia, reale o immaginata, di abbandono da parte della figura di riferimento può essere la causa di un’azione violenta. Questa ricerca fornisce tra l’altro alcune prove sul fatto che l’interazione tra uno stile di attaccamento evitante e uno stile di attaccamento ansioso, possa essere un forte predittore di violenza domestica. Data questa prospettiva, lo studio conclude che la violenza può essere usata per regolare la distanza socioemotiva all’interno della coppia.
In un’altra ricerca condotta da Allison, Bartholomew, Mayseless e Dutton (2008), si sono identificate le diverse strategie messe in atto dai partner per regolare la distanza socioemotiva: strategie, (“strategia di ricerca” e “strategia di allontanamento”) utili per raggiungere il livello desiderato di vicinanza nelle relazioni e la relativa accessibilità del partner. La violenza subentra nella messa in atto di queste strategie: come ricerca, può rappresentare un tentativo di aumentare la vicinanza fisica ed emotiva; come allontanamento, può essere vista come un tentativo di diminuire la vicinanza, quasi una necessità messa in atto per respingere un partner, quando non viene percepito nessun altro mezzo di fuga o di autodifesa.
Abbinando la teoria dell’attaccamento alla teoria delle strategie di vicinanza/allontanamento, si è potuto riscontare come le persone il cui attaccamento era principalmente preoccupato tendevano a desiderare alti livelli di vicinanza relazionale e a utilizzare strategie di ricerca quando vivevano un livello di prossimità più basso di quello desiderato. Al contrario, gli individui con tendenze di attaccamento evitante hanno optato per la messa in atto di strategie di allontanamento, per ottenere e mantenere un livello confortevole di distanza relazionale. In molti casi, gli individui sembravano utilizzare le due strategie di regolazione di vicinanza secondo le loro tendenze di attaccamento primarie e secondarie.
In uno studio precedente, Allison e Bartholomew (2006) si erano già focalizzate sulle fondamenta diadiche dell’abuso, evidenziando le due modalità sin qui descritte, ma inscrivendole in una rapporto diadico: il pattern pursuing/distancing e quello pursuing/pursuing. Il pattern pursuing/distancing, si riscontra nelle coppie con bisogni d’attaccamento incompatibili, che, come abbiamo visto, sono segnate dal bisogno di vicinanza di un partner, contrapposto a quello di distanza dell’altro. I partner preoccupati fanno esplodere la loro violenza quando falliscono le strategie di inseguimento (come le richieste di attenzione, i tentativi di comunicare, l’abuso verbale, le espressioni di gelosia), mirate a ripristinare il loro stato ideale di vicinanza. I partner evitanti, invece, si percepiscono come intrappolati, sentendosi braccati dall’altro, e tentano di mettere una distanza attraverso un disingaggio emotivo, verbale e fisico. Quando le strategie di distanziamento falliscono, queste persone possono a volte reagire con violenza. Allison e Bartholomew (2006) parrebbero dunque mettere in discussione la prospettiva che vede l’esercizio della violenza come prerogativa del partner evitante. Secondo questo studio, infatti, sia i soggetti preoccupati, sia quelli evitanti, usano la violenza contro i partner quando questi ultimi falliscono nel rispondere ai loro tentativi di regolare il livello di vicinanza fisica ed emotiva.
Il pattern pursuing/pursuing viene individuato nelle coppie in cui entrambi i partner mostrano livelli di preoccupazione da moderati ad alti: questi soggetti si ritrovano dunque a concorrere per ilsostegno e l’attenzione l’uno dell’altro, senza che nessuno dei due sia in grado di andare incontro ai bisogni dell’altro, generando quindi una dinamica frustrante che può sfociare in aggressione.
b. Il ruolo delle emozioni.
Come riportato nella letteratura, (Novaco, 1994; Ellis & Malamuth, 2000), le emozioni coinvolte nell’insorgere di comportamenti violenti nella coppia sono soprattutto la rabbia, la gelosia, la perdita di fiducia e l’affetto negativo (irritabilità, ansia, umore basso). La teoria dell’attaccamento ha fornito un grande contributo nell’analisi delle emozioni coinvolte nei processi disregolativi che caratterizzano le situazioni violente. Secondo Bowlby (1979) il timore di restare soli spinge ogni individuo a evitare questa circostanza. La violenza, secondo l’autore, sarebbe dunque scatenata dalla paura. Bowlby (1980) parla di “rabbia nata dalla paura”, e la descrive come una reazione istintiva alla separazione, legata alla sopravvivenza della persona, che subentrerebbe nei casi in cui vi è una reale risposta negativa dell’altro, oppure l’aspettativa di una risposta negativa. Secondo Bowlby (1973; 1979), in questi casi, il sistema di attaccamento si attiverebbe, con effetti simili alla reazione d’allarme che si verifica negli animali.
L’autore descrive poi la rabbia secondo due funzioni: funzionale e disfunzionale. La rabbia funzionale entra in gioco quando la stabilità e la sopravvivenza di un legame affettivo sono minacciate: in questo senso agisce per proteggere il legame stesso: “maggiore è il pericolo della perdita, più intenso e multiforme è il tipo di reazione/azione suscitata per impedirla” (Bowlby, 1980). Questa tipologia di rabbia contribuisce a superare gli eventuali ostacoli al ricongiungimento con la figura di attaccamento. Quando la sensazione di perdita o i segnali di rifiuto del partner sono sentiti come continui, o come troppo pericolosi, subentra, invece, la rabbia della disperazione, una rabbia priva di funzionalità e diretta contro la persona che si sente ormai perduta: si tratta, qui, della rabbia disfunzionale. È una rabbia “cieca”, venata di forte odio, che si scatena quando la perdita è percepita come ineluttabile: è un sentimento disperato, che non tiene in alcun conto la sofferenza causata all’altro e che è così intenso e persistente, da indebolire, anzichè rafforzare, il legame affettivo.
Dunque, la rabbia disfunzionale sarebbe una reazione alla frustrazione contro la figura di attaccamento. Evidenza, questa, confermata da alcuni studi. Babcock et al. (2000) hanno evidenziato come gli uomini fisicamente violenti verso le loro mogli, avevano più probabilità di essere classificati come portatori di uno stile di attaccamento insicuro, come misurato dalla Adult Attachment Interview, rispetto agli uomini non-violenti, che riferivano un disagio coniugale (George, Kaplan & Main, 1985).
Esaminando gli uomini che esercitano violenza sulle donne, Peter Fonagy (1998) avanza l’ipotesi che la rabbia si tramuti in violenza negli uomini incapaci di concepire l’aggressività, come dinamica potenzialmente presente in una relazione affettiva. Partendo dalla constatazione che gli uomini violenti hanno spesso una storia di abuso alle spalle, l’autore sostiene che la scarsa capacità di mentalizzazione di questi ultimi possa giocare un ruolo cruciale nella messa in atto dei comportamenti violenti. Fonagy individua quindi alcuni elementi che intervengono nelle situazioni in cui la violenza viene attivata. Tra gli altri, cita il fatto che la violenza si scatena spesso in reazione a una maggiore autonomia della partner femminile; il timore di abbandono che questi uomini esprimono attraverso scoppi d’ira; un comportamento controllante, che si esprime privilegiando l’azione e strategie prementali; una forte rigidità di pensiero, che impedisce di contemplare le ragioni e gli stati d’animo della partner. L’autore riscontra poi una connessione tra lo stato emotivo dell’uomo, prima dello scatenarsi della violenza, e le emozioni che egli riscontra nella donna durante l’attacco. Come riportato da diversi studi (Allison, Bartholomew, Maysless & Dutton, 2008), la fase successiva all’attacco, si configura poi come il ripristino dell’omeostasi e della riuscita del tentativo di distruzione dell’indipendenza psichica della donna.
In questo quadro, manca però una visione della vittima e soprattutto del rischio di rivittimizzazione. Alcune ricerche, come quella di Kuijpers, van der Knapp e Winkel (2012) si concentrano sulla rivittimizzazione all’interno della relazione di coppia. In particolare, scopo dello studio citato è identificare i meccanismi psicologici delle vittime, che sono alla base del legame tra vittimizzazione e rivittimizzazione. La ricerca dimostra come un attaccamento evitante nelle vittime sia un predittore significativo della rivittimizzazione sia fisica che psicologica. Poichè uno stile di attaccamento evitante nei soggetti femminili è caratterizzato da un comportamento respingente, la violenza maschile in queste coppie può essere vista come una reazione emotiva alla frustrazione del bisogno di intimità dell’uomo. Si tratterebbe quindi di una tipica relazione di reciprocità. Nello studio è stata anche evidenziata un’interazione significativa tra l’attaccamento evitante delle vittime e la rabbia. Nelle vittime con alti e medi livelli di rabbia, uno stile di attaccamento evitante si è rivelato un predittore significativo della violenza sia fisica che psicologica. In sintesi, il comportamento di evitamento, arrabbiato e aggressivo da parte della vittima, parrebbe, direttamente o indirettamente, influenzare il rischio di rivittimizzazione.
c. Durata della relazione.
La durata di una relazione è stata messa in correlazione con l’insorgere di episodi di violenza nella coppia stessa. Secondo lo studio condotto da Bond e Bond (2004) una lunga durata del matrimonio/relazione, se correlato con gli stili di attaccamento evitante e ansioso, può essere predittiva di violenza.
Nel campione femminile esaminato, lo stile di attaccamento ansioso e la durata del matrimonio sono stati tutti significativamente correlati al potenziale di vittimizzazione per le donne. Per gli uomini, al contempo, si è visto che la messa in atto della violenza era correlata con uno stile di attaccamento evitante e la durata del matrimonio. Infine, è emerso che i soggetti facenti parte di una coppia con un modello ansioso-evitante, con difficoltà di problem solving e di comunicazione, sposati per un lungo periodo di tempo, erano maggiormente esposti al rischio di violenza e di vittimizzazione. In coppie di lunga durata, composte da donne con uno stile di attaccamento ansioso e da uomini con uno stile di attaccamento evitante, il rischio di violenza coniugale era infatti nove volte più alto rispetto a coppie con altri modelli relazionali.
La correlazione tra il perdurare della violenza in una coppia e la durata della stessa, è stata messa in luce da un recente studio italiano, condotto per conto dell’università di Bologna, da Santangelo e Colombo (2012). Gli autori, nel ricercare le cause di vittimizzazione del partner e la persistenza dello stesso nel ruolo di vittima, hanno individuato tre fattori che, secondo la ricerca, imprigionano le donne nella relazione, impendendo loro di sottrarsi al compagno violento: la presenza o meno di figli, la zona geografica di residenza e, soprattutto, la durata della relazione allo scattare del primo episodio di violenza.
Non sono state chiarite a fondo, per mancanza di studi peculiari, le ragioni della correlazione sin qui esaminata. Dunque, la domanda “perché una coppia di lunga durata che presenta uno stile di attaccamento ansioso-evitante, può essere incline a sviluppare violenza?”, non ha, secondo l’indagine svolta per questo elaborato, trovato una risposta esauriente. Alcune interpretazioni (Velotti, 2013) fanno risalire tale correlazione a una precisa dinamica tra i partner, che li vede impegnati in una coazione a ripetere: una situazione in cui la vittima si trova imprigionata, nella percezione di non avere altre soluzioni possibili, con la conseguente chiusura in una relazione dannosa ma conosciuta.
d. Capacità di comunicazione e problem solving.
La teoria dell’attaccamento ha fornito una concettualizzazione della rabbia come espressione di cura e di tentativo di proteggere la vitalità del rapporto, riportando così intimità e sicurezza (Bowlby, 1988). Il passaggio alla violenza fisica può essere inteso come il sintomo di una coppia fuori controllo, che soffre anche di scarsa capacità di problem solving e di comunicazione.
Il rischio aumenta quando i due partner presentano uno stile di attaccamento ansioso e uno evitante. In questo tipo di relazione la rabbia crescente e la violenza attuata possono essere viste come un cortocircuito del sistema di controllo all’interno della coppia, accompagnato da una bassa capacità di problem solving e di comunicazione. Per spiegare questa correlazione tra stili di attaccamento e incapacità di comunicazione e problem solving, bisogna far riferimento a quello che Feeney (2003) ha detto a riguardo. Egli sostiene che le mogli ansiose percepiscono i mariti non ansiosi come incapaci di comprendere le loro preoccupazioni. Questa situazione può portare a un’escalation di coercizione e di comunicazione ostile, in quanto la donna spinge per la vicinanza e l’uomo per la distanza. Il rifiuto del partner evitante alimenta la sua incapacità di fornire il bisogno lenitivo necessario per placare i timori e le preoccupazioni della moglie ansiosa. Il rifiuto dell’uomo di costruire una relazione intima affiatata contribuisce dunque ulteriormente alla paura di abbandono della moglie. Se i due partner non si dimostrano in grado di elaborare la distanza con un’efficace comunicazione e con una buona capacità di problem solving, la situazione è destinata a degenerare.
In conclusione, parte della letteratura scientifica sembra affermare che gli stili di attaccamento giochino un ruolo fondamentale nella genesi e nella predizione della violenza nella coppia. Così, come si può evidenziare che gli stili di attaccamento maggiormente coinvolti siano quello ansioso, con tutte le sue sfumature, e quello evitante. Gli stili di attaccamento influirebbero altresì nella formazione e nell’individuazione di altri indicatori, quali: la rabbia e le sue manifestazioni, con modalità funzionali o disfunzionali; le strategie di ricerca e di allontanamento, dove la violenza potrebbe servire per regolare il bisogno di vicinanza/distanza ottimale; la durata della relazione e la capacità di comunicazione e problem solving dei due partner.
CONCLUSIONI
Sulla base di quanto esaminato nel presente elaborato, si può concludere che la teoria dell’attaccamento è centrale nella comprensione delle dinamiche che connotano la relazione di coppia. Anche nel contesto della violenza, tale teoria ha prodotto un importante insieme di dati, che hanno arricchito le conoscenze sul ruolo delle differenze individuali dell’attaccamento tra abusanti e vittime. Domande quali a chi spetti il ruolo di vittima e a chi quello di abusante o perché due partner decidano di restare insieme, in una relazione potenzialmente distruttiva, hanno potuto trovare alcune risposte. Così, Davila e Bradbury (2001), come spiegato nel corso dell’elaborato, sostengono che la ragione per cui i partner coinvolti in una relazione violenta non riescano a uscirne, sia da ricercare nel bisogno di attaccamento espresso dagli stessi. Un’ulteriore interessante analisi in tal senso è stata proposta da Bartholomew et al. (2001), secondo i quali un ruolo centrale nell’impossibilità da parte dei partner di abbandonare una relazione abusante, è giocato dalla dipendenza e dall’ansia da separazione, se associate agli stili di attaccamento preoccupato e timoroso. Questi due costrutti, inoltre, possono predisporre i partner a impersonare il ruolo di vittima o di persecutore.
La centralità degli stili di attaccamento nella genesi e nello sviluppo della violenza di coppia, quindi nella sua possibile predizione, è del resto stata ampiamente discussa nel corso di tutto l’elaborato.
Ma preme qui sottolineare anche un altro elemento: si è visto infatti che nelle coppie a rischio di violenza non entrano in gioco solo gli stili di attaccamento dei due partner, ma anche la relazione diadica che si instaura tra di essi (Brosi, Busby, Gardner, Topham & Wilson, 2013). Secondo gli autori, la prospettiva diadica consente ai terapeuti di valutare, non solo più efficacemente il rischio di violenza all’interno della relazione di coppia, ma anche di fornire un ulteriore contesto nella concettualizzazione del ruolo della violenza nelle relazioni sentimentali.
La possibilità di individuare il rischio di violenza nelle relazioni di coppia, è oggi nevralgica, perché, come si è visto dai dati riportati, tale violenza rappresenta una vera e propria emergenza sociale. Si tratta del tema della prevenzione, che riguarda sia l’individuazione delle coppie a rischio, che il loro trattamento.
Molte analisi mettono in luce l’importanza della prevenzione a breve, medio e lungo termine, non solo dal punto di vista del benessere individuale e sociale delle famiglie, ma anche per il contributo alla crescita economica e sociale che le donne, libere dal pericolo della violenza, potrebbero offrire. Secondo molti osservatori, la prevenzione, e trattamenti consequenziali, rimangono in effetti le uniche strategie efficaci per contrastare la violenza sulle donne (Badalassi, Garreffa & Vingelli, 2013). Senza volersi qui dilungare sulle difficoltà di portare in terapia una coppia violenta, conviene concentrarsi sull’efficacia del trattamento, una volta che il processo sia avviato.
Diversi progetti sono in corso in tutto il mondo. Basti qui citare uno dei più noti: si tratta del modello “Naming and Shaming” messo a punto da Clulow (2008) nel Regno Unito. Secondo l’autore, attribuire un nome al comportamento violento nel corso della terapia, può essere fonte di vergogna per entrambi i partner della coppia violenta, ma può risultare anche un contenitivo, che conduce al riconoscimento del proprio stato emotivo. Nel processo di mentalizzazione di tale stato emotivo, prosegue l’autore, si può aiutare i partner a convertire la vergogna in colpa e a tollerare il graduale smantellamento dell’immagine idealizzata di sé. Riassumendo, Clulow sostiene che dare un nome al comportamento violento in una coppia, può essere fonte di vergogna per entrambi i partner, non solo per colui che commette violenza: il che, sarebbe particolarmente vero quando il nominare la violenza distrugge l’immagine ideale di sé e della relazione, che fino ad allora era stata mantenuta come difesa contro il dolore psichico.
In ogni caso, il lavoro terapeutico con la coppia violenta è particolarmente delicato. Perché il processo di cambiamento possa avviarsi, il terapeuta deve aiutare i pazienti a sviluppare una comprensione psicologica del ciclo continuo abuso-vittimizzazione-riconciliazione, senza giudicare la vittima o permettere all’aggressore di evitare di assumersi le responsabilità delle proprie azioni (Velotti, 2013). Inoltre, per poter iniziare la terapia, deve essere sospesa la violenza: spesso questa situazione fa sì che i partner debbano essere trattati separatamente e allontanati l’uno dall’altra. Alcuni autori (Ricci & Langher, 2013) riportano inoltre che nei casi di maltrattamento la terapia è particolarmente problematica perché comporta che al centro dell’attenzione vi sia la relazione, prima ancora che la violenza: una chiave di lettura, spesso difficile da approcciare per le vittime e gli autori dell’abuso, restii ad affrontare un’analisi della loro relazione in termini psicologici. Va inoltre considerato il fatto che la maggior parte delle donne vittime di violenza domestica non abbandona il partner e chiede al terapeuta di preservare la relazione, pur liberandola dalla violenza (Ricci & Langher, 2013). Infine, come già sottolineato e data l’emergenza sociale che la violenza domestica dimostra di essere, non si può non evidenziare il fatto che le coppie che si rivolgono a uno psicologo, rappresentano la punta dell’iceberg del fenomeno, trattandosi di coppie uscite dalla privatezza della propria condizione e già disposte nei confronti della terapia. Purtroppo, le evidenze italiane parlano di una quota significativa di violenza familiare che resta sommersa, che non viene cioè denunciata alle autorità e non conduce a una richiesta di aiuto. Sulle dinamiche familiari di queste famiglie che restano nell’ombra, e sui loro destini, è ovviamente difficile compiere studi attendibili. E, di conseguenza, attuare un’efficace opera di prevenzione e di trattamento.