Con 290 grandi elettori (contro i 218 di Hilary Clinton), Donald Trump sarà il 45esimo presidente degli Stati Uniti. Dopo mesi di campagna elettorale condotta senza esclusione di colpi, sondaggi controversi e una notte che ha tenuto con il fiato sospeso tutto il mondo, l’elezione di Trump racconta di un’America che applaude agli insulti misogini, all’intolleranza e a diritti calpestati. E ci parla di un odio che si diffonde in rete e sui social network. Silvia Brena, giornalista e co-fondatrice di Vox, riflette su vincitori e vinti di una notte destinata a entrare nella storia. E sulla sconfitta che questa elezione e questa campagna elettorale, con il carico di misoginia e di corpi femminili plastificati esibiti, rappresentano per tutte le donne.
C’è un’immagine, che credo abbia colpito molte donne al risveglio dalla lunga e penosa notte elettorale americana.
È la scelta del luogo in cui Hillary Clinton avrebbe voluto festeggiare la sua vittoria: il Convention Centre di New York, una struttura gigantesca con un soffitto di vetro. Quel maledetto glass ceiling, il soffitto di cristallo, che sta sopra alla testa delle donne da troppo tempo, in troppe parti del mondo.
Quel soffitto è rimasto saldo al suo posto.
È stata una brutta notte e un pessimo risveglio, quello seguito alle elezioni americane che hanno incoronato Donald Trump 45esimo presidente degli Stati Uniti.
Una brutta notte, perché milioni di americani hanno votato per un uomo che dice apertamente cosa pensa delle donne (e non è un bel pensiero), che ha ricevuto l’appoggio dei razzisti del Ku Klux Klan, che dichiara di voler costruire muri e che ha concluso la sua campagna elettorale rispolverando un classico ciarpame della propaganda antisemita, quei Protocolli di Sion, diffusi in Russia all’inizio del XX secolo per diffondere l’odio contro gli ebrei.
Ecco, appunto, l’odio. E l’intolleranza.
Certo, il risultato delle elezioni americane è figlio del disagio, della frustrazione di una classe media bianca che ha perso per strada i suoi valori, i suoi punti di riferimento, la sua fede nelle “magnifiche sorti e progressive”, e che si è vista via via impoverire. Un’America che non ha mai perdonato a Obama di essere nero e che, come spiega lo scrittore afro americano Ta- Nehisi Coates, sconta ancora il suo peccato originale, lo schiavismo.
Un’America, che ha deciso di fregarsene delle bugie di Trump, della sua manifesta vanità, del suo essere un presunto evasore fiscale. E che lo applaude, anche per il suo linguaggio.
In Europa, questo linguaggio, che incita all’odio e all’intolleranza, lo conosciamo purtroppo assai bene. Anche in Italia. Come ha dimostrato la nostra Mappa dell’Intolleranza.
Paura. Ansia. Perdita di identità sociale e di certezze economiche. Così l’altro, qualunque Altro, viene percepito come alieno. E pericoloso.
Oggi, e si è visto per l’ennesima volta con la campagna elettorale americana, ad alimentare la tempesta perfetta c’è però una variabile fondamentale: sono i social, Twitter e Facebook in primis. È sui social che l’odio e l’intolleranza allignano e si diffondono come una marea tossica. È sui social che le opinioni personali e le frustrazioni di ogni giorno assumono la forza dirompente di messaggi scagliati contro la nostra capacità di rifondare un patto sociale. Con buona pace delle sane pratiche di fact checking: ciascuno dice ciò che gli salta in mente, senza alcun dovere verso i suoi lettori, di verifica dei fatti.
Dai fatti alle parole.
Anche così si calpestano i diritti. Neri, disabili, ebrei, musulmani, ispanici. Trump ha insultato tutti. Ma prima di tutto ha insultato il nostro essere umani.
E dalle parole ai fatti.
Perché poi ci sono le donne. Ci sono quelle patinate e platinate che circondavano il Capo nella notte della vittoria, frusta e scontata iconografia celebrativa. E ci sono le donne che si sono vestite di bianco (#WearWhiteToVote) per andare a votare Hillary, in memoria delle lotte delle prime suffragette, che portavano abiti bianchi.
Sul loro corpo, sul nostro corpo, la paura del maschio bianco in crisi di potere e di identità si abbatte. Con gli insulti. E con i femminicidi.
Dalle parole ai fatti.
Forse Hillary non era la candidata presidente da amare solo perché donna. Ma certamente, la sua sconfitta è la sconfitta di noi tutte.
È stata una brutta notte. E un pessimo risveglio.