Il lavoro minorile è un fenomeno complesso e, purtroppo, sempre più diffuso, che va combattuto attraverso l’impegno delle Istituzioni, delle parti sociali e dei cittadini. In occasione della Giornata mondiale contro il lavoro minorile, ne parla con Vox Andrea Iacomini, portavoce ufficiale di Unicef Italia, che spiega come questa piaga si possa e si debba combattere. A partire dalla definizione di una carte di Principi, che anche le aziende devono sottoscrivere.
Lavoro minorile: qual è la situazione in Italia?
Il lavoro minorile è un fenomeno complesso che deve necessariamente tenere conto del contesto geografico e della dimensione economica e sociale in cui si verifica. L’approccio emerso dal dibattito internazionale fa una distinzione tra “child work” e “child labour”: il primo si traduce in “lavoro minorile non lesivo” ovvero in un’attività lavorativa non pericolosa né pregiudizievole, che si affianca alla frequenza scolastica e che non interferisce con la crescita del bambino, pur consentendogli di contribuire all’economia familiare; il secondo invece fa riferimento allo “sfruttamento del lavoro minorile” basato cioè su un’attività lavorativa suscettibile di pregiudicare lo sviluppo fisico, psichico e morale del minorenne e che, per la sua durata e intensità, impedisce al bambino di accedere all’istruzione di base. In Italia con l’accezione “lavoro minorile” si fa appunto riferimento all’attività lavorativa svolta da un minore degli anni 16 e dunque illegale ai sensi della normativa. Di norma il lavoro minorile e il suo sfruttamento vanno di pari passo con la povertà e il disagio sociale e quasi sempre vede collegati un percorso scolastico difficile, in termini di frequenza e qualità, con altri fattori come la condizione economica familiare o il progetto migratorio dei minorenni di origine straniera arrivati in Italia per sfuggire dalle difficili realtà nei loro Paesi di provenienza e destinati al lavoro precoce se non ai circuiti dello sfruttamento.
In Italia le stime del fenomeno sono controverse a causa dell’assenza di un sistema di monitoraggio istituzionale, che impedisce di delineare un quadro univoco della situazione.
In base all’ultima indagine istituzionale svolta nel 2008 dal CNEL in collaborazione con la Camera dei Deputati ed il Senato della Repubblica, lo sfruttamento del lavoro minorile in Italia riguardava prevalentemente i maschi, con 2 minori che lavoravano su 3. Dalla ricerca è emerso che il 20% dei minori che lavoravano era impegnato per almeno 7-8 ore al giorno e che solo il 40% percepiva una paga regolare (intorno ai 400 euro al mese); il 43% riceveva solo compensi occasionali, mentre il 17% soltanto oggetti o regali. Altro aspetto, non meno importante, riguarda le collaborazioni di minorenni ad attività familiari, con il 70% dei minori coinvolti in situazioni di questo genere; oltre il 21% è risultato aiutare parenti o amici di famiglia mentre il 9% risultava lavorare presso terzi. La fotografia che ne esce ci dice che anche in Italia il fenomeno deve essere tenuto sotto controllo e che, sicuramente, abbiamo bisogno di un sistema di raccolta dati mirato e di studi periodici per definire linee di azione sempre più mirate.
Negli ultimi anni, il fenomeno sembra essersi acuito soprattutto in Europa. Come lo spiega?
Sì, anche il Commissario per i Diritti Umani del Consiglio d’Europa, Nils Muižnieks, ha recentemente rimarcato come lo sfruttamento del lavoro minorile sia un fenomeno in crescita in Europa, specie in conseguenza della crisi economica. Proprio come per l’Italia, anche per gli altri Paesi europei il legame tra decrescita economica e conseguente aumento dello sfruttamento del lavoro minorile è un fattore cruciale del fenomeno. Inoltre col crescere della disoccupazione molte famiglie non hanno trovato altra soluzione se non mandare i propri bambini a lavorare. Possiamo però azzardare un paragone per meglio spiegare questo aspetto, chiamiamolo “europeo” dello sfruttamento del lavoro minorile in Europa: mentre il fenomeno nei Paesi in via di sviluppo è ben noto, la materia in Europa sembra un argomento tabù. In linea di massima la maggior parte dei minorenni che lavorano nel nostro continente svolge mansioni estremamente pericolose in agricoltura, nell’edilizia, in piccole fabbriche o sulla strada e i Paesi maggiormente a rischio sono quelli duramente colpiti dalle misure di austerity, come Cipro, la Grecia, il Portogallo e l’Italia.
Quale ruolo devono svolgere l’associazionismo e le parti sociali?
Le parti sociali, così come l’associazionismo, devono continuare a svolgere quel lavoro di sensibilizzazione e prevenzione collaborando con i governi per contrastare il fenomeno e offrire sostegno ai minorenni e alle loro famiglie. L’UNICEF promuove a tutti i livelli la conoscenza e il rispetto dei diritti dei bambini, riconoscendo che i principali interlocutori per la comprensione del fenomeno del lavoro minorile sono gli stessi lavoratori minorenni. L’UNICEF lotta contro lo sfruttamento del lavoro minorile con programmi di sensibilizzazione, prevenzione e reinserimento scolastico o lavorativo per bambini lavoratori, ex-bambini soldato, bambini di strada, che prevedono orari flessibili, metodologie didattiche partecipative e un apprendimento che contempla competenze utili per la vita quotidiana e per la formazione professionale. L’UNICEF è inoltre consapevole del ruolo cruciale delle aziende: nel 2012 sono stati presentati i Children’s Rights and Business Principles sviluppati in consultazione con i governi, il mondo imprenditoriale, la società civile, le istituzioni nazionali indipendenti per i diritti umani e gli stessi minorenni. I Principi sono indirizzati alle imprese e individuano una gamma di azioni che queste dovrebbero intraprendere per rispettare e sostenere i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, prevenirne le violazioni o, se tardi, garantirne il ripristino. I Principi individuano i minori e le loro famiglie quali interlocutori privilegiati per le aziende, mirando a far sì che i loro diritti siano rispettati sul luogo di lavoro, sul mercato e nelle attività di vendita, promozione e pubblicità svolte dall’azienda, nel rispetto dell’ambiente.
Che cosa possono fare i cittadini per combattere il lavoro minorile?
Così come le Istituzioni, l’associazionismo e le parti sociali, anche i singoli cittadini sono stakeholders rilevanti e hanno un ruolo importante nel contrasto al fenomeno dello sfruttamento del lavoro minorile. Cittadini informati sapranno tutelare i propri diritti di individui e di lavoratori e adottare misure adeguate nei confronti di ogni forma di sfruttamento economico, rivendicando protezione sociale per sé e le proprie famiglie, reclamando da parte dei Governi l’adozione di norme specifiche e il loro rispetto, tramite l’esercizio di adeguati poteri ispettivi sui luoghi di lavoro. I bambini devono avere la possibilità di vivere con spensieratezza la loro infanzia e accedere a un’istruzione gratuita e di qualità senza doversi sobbarcare i doveri, le responsabilità e i rischi propri di ogni ambito lavorativo. Dobbiamo garantire ai nostri figli e ai nostri nipoti spazi protetti in cui poter giocare, apprendere, divertirsi, socializzare, sperimentare forme di integrazione e condivisione, luoghi in cui poter creare basi forti per il proprio futuro, sulle quali far crescere le persone che saranno. Negare loro del tempo utile per sfruttarne la forza lavoro nella più totale mancanza di rispetto dei loro diritti significa commettere un grave errore. Un bambino sano, felice, formato, sarà portatore di idee e comportamenti sani, coscienti e competenti.
Quali sono le responsabilità che deve assumersi il governo?
Abbiamo appena parlato del ruolo cruciale che una cittadinanza attiva e informata può avere per il futuro dei nostri figli. Altro aspetto fondamentale sono le istituzioni e il governo. Per individuare interventi mirati abbiamo sicuramente bisogno di azioni di raccolta dati e monitoraggio; inoltre, è importante riattivare un meccanismo di coordinamento che coinvolga il Governo, le parti sociali ed anche l’Associazionismo per attivare tutte le possibili sinergie in materia di lotta allo sfruttamento del lavoro minorile. Secondo le ultime Osservazioni Conclusive rivolte all’Italia dal Comitato ONU sui diritti dell’infanzia, lo Stato parte della “Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia” dovrebbe assicurare, attraverso la legislazione, un chiaro quadro di riferimento per un effettivo monitoraggio atto ad assicurare che le imprese con sede legale in Italia non utilizzino sfruttamento del lavoro minorile nella loro catena produttiva né che esso venga utilizzato dai partner stranieri. Inoltre il Governo dovrebbe investire sulla prevenzione, adottando adeguate misure di contrasto alla dispersione scolastica, in modo da garantire la frequenza scolastica a tutti minorenni in età dell’obbligo predisponendo altresì progetti mirati destinati alle tipologie di minorenni maggiormente esposte al rischio di sfruttamento economico.
L’attuale normativa per la tutela dei diritti dell’infanzia è sufficiente a contrastare il fenomeno?
Nel nostro Paese il lavoro minorile e il suo sfruttamento sono disciplinati dalla legge n.977 del 17 ottobre 1967 “ tutela del lavoro dei bambini e degli adolescenti”, che ha subito modifiche e integrazioni negli anni: la normativa prevedeva inizialmente che non potessero essere ammessi al lavoro i minori di età inferiore ai 15 anni e/o che non avessero adempiuto gli obblighi scolastici. L’obbligo scolastico è stato innalzato a 16 anni a partire dall’A.S. 2007/2008 (L. 296/2006). Il Governo italiano ha inoltre ratificato i principali Trattati internazionali in materia, in particolare la Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia – che stabilisce il diritto del minore a essere protetto contro lo sfruttamento economico (art.32 e seguenti) e contro ogni altra forma di sfruttamento (schiavitù, lavoro forzato, prostituzione minorile, pornografia minorile, traffico di minori, reclutamento forzato), la Convenzione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) n.138 del 1973 riguardante l’età minima di ammissione all’impiego e n.182 del 1999 sulle peggiori forme di lavoro minorile e, non in ultimo, la Convenzione n.189 del 2011 sui diritti delle lavoratrici e dei lavoratori domestici. L’Italia è tra i tre più grandi Paesi datori di lavoro domestico in Europa ed stato il primo (e l’unico al momento) degli Stati membri dell’Unione Europea a ratificare questo Trattato, entrato in vigore il 5 settembre 2013. La normativa interna ed internazionale esistente è dunque molteplice ed attenta al fenomeno, anche se, come già ribadito, è necessaria l’implementazione di determinati strumenti – primo fra tutti un sistema statistico che monitori costantemente il fenomeno – e l’investimento in determinati ambiti, come quello del contrasto alla dispersione scolastica.
Andrea Iacomini, portavoce dell’UNICEF Italia, giornalista. Ha iniziato il suo percorso da giovanissimo impegnandosi come volontario nel mondo dell’associazionismo politico, scoutistico e sociale.
Nel 2008 è approdato all’UNICEF Italia come Capo Ufficio Stampa. Nell’aprile 2012 è stato nominato portavoce, incarico che ricopre tutt’oggi all’interno dell’organizzazione. Autore di numerosi articoli e approfondimenti di attualità, politica estera ed interna, ha pubblicato nel 2007 un libro dal titolo “Buona Strada”.