“Il divieto di indossare il velo integrale, in vigore in Francia, non viola la libertà di religione né la Convenzione europea dei diritti dell’uomo”. A stabilirlo, la Corte europea dei diritti dell’uomo, in risposta a un caso avviato da una ventenne francese, secondo cui la misura del governo francese viola la sua libertà religiosa e di coscienza. Per i giudici, l’obiettivo che si pone la legge, ossia quello di promuovere l’armonia nella società, è legittimo e non viola i diritti religiosi della donna. Su Vox, raccogliamo il commento di Stefano Catalano, esperto di diritto costituzionale.
La Corte europea dei diritti dell’uomo il 1° luglio 2014 si è occupata della disciplina francese prevista dalla legge che proibisce “la dissimulation du visage dans l’espace public”, ossia gli abbigliamenti che impediscono, nello spazio pubblico, il riconoscimento del volto. Non si tratta, formalmente e contrariamente a quanto sia stato percepito – per altro correttamente – dalla pubblica opinione, di una legge sul velo islamico, ancorché integrale. L’art. 1 della legge, infatti, letteralmente stabilisce che “nessuno può indossare, nello spazio pubblico, un abbigliamento idoneo ad occultare il volto”. Tuttavia, nella sostanza, se si tiene in considerazione anche il contesto e soprattutto il percorso che ha condotto all’approvazione della legge, risulta chiaro come l’intento reale fosse proprio quello di impedire alle donne di fede islamica di indossare il velo nello spazio pubblico.
Si tratta di una scelta molto controversa. Ne è chiara dimostrazione il fatto che la legge 11 ottobre 2010, n. 1192 sia stata sottoposta al controllo preventivo da parte della Corte costituzionale francese. Quest’ultima, considerato che lo scopo della legge è di tutelare l’ordine pubblico e la sicurezza della collettività – che potrebbero essere compromessi dalla presenza di persone con il volto nascosto –, ritiene che non vi sia violazione del principio di uguaglianza e delle norme costituzionali che garantiscono la libertà individuale (si veda la décision n. 2010-613 DC).
Il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo viene proposto da una donna di fede musulmana, nata in Pakistan e stabilmente residente in Francia. Questa ritiene che la disciplina in esame, impedendole di mostrare in pubblico la propria appartenenza religiosa, sia in contrasto fra l’altro e soprattutto con la norma della CEDU che garantisce la libertà religiosa (art. 9). Il problema è, in sostanza, che la disciplina mette la ricorrente nella situazione di dover scegliere se dare obbedienza alla legge, contravvenendo ad un precetto della propria fede, oppure seguire quest’ultimo con la conseguenza di violare la legge e di rischiare di subire la sanzione da essa prevista.
Lo Stato francese, nel difendere la propria legge davanti alla Corte, indica come esso abbia voluto tutelare la sicurezza pubblica, e il nucleo minimo dei valori propri di uno stato democratico. In quest’ultimo ambito vengono fatti rientrare tre aspetti: a) la necessità di tutelare l’uguaglianza fra uomini e donne; b) la necessità di tutelare la dignità umana; c) la protezione della libertà altrui.
Il primo obiettivo indicato dalla Francia viene considerato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo rilevante dalla Corte europea che non casualmente ricorda i lavori preparatori della legge del 2010, nonché la decisione del Conseil constitutionnel. Quanto al secondo obiettivo, invece, si sente il bisogno di svolgere delle considerazioni molto più ampie. Anzitutto, si afferma che non si possono invocare ragioni di uguaglianza per vietare il velo. Questo, in effetti, non assicura di per sé e automaticamente la parità di trattamento fra uomini e donne. Il punto non viene ulteriormente approfondito, ma pare importante se si ricorda come spesso proprio l’idea di vietare la discriminazione delle donne rappresenti uno dei fondamenti principali per il divieto in esame. Dire, infatti, che ciò non è di per sé sufficiente a legittimare una limitazione della libertà religiosa significa che le asserite motivazioni di uguaglianza non vanno assolutizzate e che devono essere accompagnate da ulteriori giustificazioni. Le stesse considerazioni valgono anche per quanto concerne il riferimento alla tutela della dignità umana che non è sufficiente a vietare il velo integrale.
Da valutare attentamente, in quanto potenzialmente idoneo ad ammettere limitazioni in ambito religioso è, invece, la necessità di tutelare la libertà altrui. Questa è stata la giustificazione che in diverse occasioni la Corte europea ha usato proprio per escludere la violazione dalla libertà religiosa da parte di alcuni Stati che vietano il velo. Questi ultimi, per altro, nel fare le proprie scelte, godono di un ampio margine discrezionale (margine di apprezzamento). Ed è proprio questo l’elemento decisivo che permette alla Corte di escludere la violazione della convenzione. In effetti, nel caso di specie, nel valutare che il divieto di indossare abiti che nascondono il volto è finalizzato a prevenire una generale minaccia contro la sicurezza pubblica, la Francia non ha effettuato una scelta sproporzionata ed arbitraria. Nell’affermare ciò la Corte considera rilevante che non vi sia, fra i paesi soggetti alla Convenzione, un accordo nel senso di ritenere non ammissibile il divieto del velo islamico.
Tuttavia, la Corte europea mostra di non valutare con favore la scelta francese. In un passaggio della decisione, infatti, si dice chiaramente che nel dettare una disciplina come quella in esame, che sostanzialmente (e in maniera forse mascherata) ha l’obiettivo di non rendere possibile l’utilizzo del velo, lo Stato si prende il rischio di creare le condizioni per rafforzare eventuali stereotipi che riguardano alcune categorie di persone e di rendere più fertile il terreno dell’intolleranza. Si tratta di preoccupazioni molto forti e condivisibili che attengono anche alle ragioni della tutela dell’uguaglianza di genere e della dignità umane che però la Corte, lo si è accennato sopra, non ritiene determinanti. Indubbiamente, ha avuto anche un peso decisivo il fatto che si sia voluto, almeno nella forma, alle ragioni della tutela della sicurezza pubblica che viene considerata, specie in questi anni, con molta attenzione.
In conclusione, però, non si può non auspicare che le valutazioni degli Stati siano in futuro più attente nell’evitare il rischio che la Corte europea segnala. L’ordinamento italiano, in questo, avendo una norma costituzionale come l’art. 19 che assicura in maniera ampia la libertà religiosa sembra già in grado, forse, di prevenire questi pericoli.
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